La dimensione spirituale in psicoterapia Umberta Telfener

La dimensione spirituale in psicoterapia

Umberta Telfener[1]

 

 

Ci sono solo due modi per vivere la vita. Uno come se niente

fosse un miracolo. L’altro come se tutto fosse un miracolo.  A. Einstein

 

Voi siete qui per consentire al divino scopo dell’universo

di manifestarsi. Ecco quanto siete importanti! E. Tolle

 

“Che cos’è l’illuminazione?”, “La fine della sofferenza” Buddha

 

 

Sono “nata” come terapista sistemica alla Filadelfia Child Guidance Clinic a metà degli anni settanta, strategica per imprinting, coinvolta nella terapia sistemico-relazionale che predicava la connessione e l’appartenenza. Parallelamente ho cominciato a leggere Castaneda e sono andata tutta la vita a visitare sciamani in giro per il mondo, incuriosita da quello che c’è tra cielo e terra, dalle dimensioni eteree, dal rapporto tra umano e natura. Ho fatto emergere un’altra faccia della mia personalità lavorando con i migranti in un dialogo che potesse non riproporre i vincoli tutti occidentali della psicoterapia; un’altra faccia parlando con le donne che sanno aprire il loro animo e svelare la loro cosmogonia personale: mi sono avvicinata a loro tramite la riflessione sulle dinamiche amorose nelle coppie e negli individui. In questo momento desidero riflettere sui gradi di congiunzione tra aspetti embricati tra loro quali il rapporto tra corpo, psiche, spirito e anima. Da questo desiderio deriva il titolo e il contenuto di questo articolo. Non intendo proporre idee ben organizzate quanto piuttosto alcune suggestioni, un’esperienza soggettiva, un racconto. Il tentativo è quello di dare parole a stati d’animo in itinere, ad azioni, ad idee che derivano da una sensazione che si respira nell’aria: la percezione della complessità e della connessione tra aspetti che la nostra cultura si è abituata a vedere separati; il collegamento tra aspetti diversi di sé, tra le persone e con la nostra Madre Terra. Descriverò l’esigenza di congiungere la professione con una ricerca personale, dimensione spesso sottaciuta. Mi riferisco alla consapevolezza della saggezza dell’Universo, al tentativo di un pensiero di interconnessione, emotivamente partecipato, che deriva anche dal mio curriculum e dalle molte esperienze fatte nel cammino spirituale che ognuno di noi intraprende, più o meno volontariamente e consapevolmente, sempre in maniera intima, privata, unica. Per alcuni si tratta infatti di esperienze sporadiche, per altri della ricerca dell’irrinunciabile impalcatura della propria vita. Per me continua ad essere così.
Rispetto il potere delle parole e credo che una volta che si sono espresse si è creata una realtà che non tornerà più ad essere unicamente sfondo. Associare la psicoterapia con la dimensione spirituale è stato fatto da tempo: il lavoro di individuazione per Jung è un percorso iniziatico e lo junghismo fa i conti coll’anima e con la dimensione spirituale; Alan Watts negli anni ‘60, in un libro che è stato un caposaldo, ragiona sul funzionamento dell’Ego e sulle strade sviluppate nel Est e Ovest del mondo per la sua liberazione, in un caso attraverso l’unione nel cosmo, nell’altro attraverso la psicoterapia, fedele all’ illusione della separatezza. Pochi anni dopo, Suzuki famoso rappresentante del buddismo Zen ed Erich Fromm, grande psicologo, collaborarono ad un testo (1970); nello stesso anno gli operatori dell’Istituto Menninger nel Kansas (USA) – tempio della ricerca psichiatrica e psicoanalitica – invitano il Guru Ram Dass per cercare interconnessioni tra il dominio psichico e quello spirituale. Gli stessi collegamenti sono proposti attualmente dalla psicologia trans-personale, da quella fenomenologica, mentre l’etnopsichiatria a volte li suggerisce[2]. La mindfulness, di moda ultimamente tra i clinici cognitivisti è forse una occidentalizzazione del concetto: si tratta di un’esperienza di pensiero senza sforzo[3] che si rifà al buddismo e che potrebbe essere definita come “far fronte ai fatti dell’esperienza, prendendo in considerazione ogni evento come accadesse per la prima volta (Goleman 1988)”, “mantenere la consapevolezza viva alla realtà presente (Hanh 1991)”, “prestare attenzione in maniera non giudicante al qui e ora, sullo scopo (KabatZinn 1994)”. Mi piace di più focalizzare sulla mindfulness intesa come pensiero unitario, come scrive il collega Antonio Ristori (2010): “La consapevolezza è un’esperienza generata in una dimensione di non dualità, dove mente e corpo, individuo e ambiente non sono separabili. Consapevolezza è sentire questa interconnessione. E’ essere in relazione o, ancora meglio, essere la relazione, con tutto ciò che in essa si può sentire, attraverso il soffio delle emozioni”.
Che si parli della dimensione spirituale tra noi relazionali non è comunque un’azione qualsiasi né nuova: già Bateson proponeva questa connessione, facendo balenare l’ipotesi che il sacro possa emergere dall’unione nella complementarietà dei significati e delle posizioni. E’ lui che ci fa accedere per primo al regno del sacro, senza dire mai esplicitamente cosa sia. La figlia Mary Catherine parla di zone dove gli angeli dimorano e dove gli stolti hanno paura di entrare e zone in cui anche gli angeli esitano a mettere piede: il rifiuto del dualismo  cartesiano,  l’attenzione alle relazioni e alla comunicazione, la sacralità dello sguardo e la conseguente attribuzione di “una certa sacralità all’organizzazione del mondo biologico”, la connessione tra coscienza, sacro ed estetica (che riunisce insieme), l’unione tra mente e natura, la metafora come logica con cui è stato costruito il mondo. Sono questi gli ingredienti “instabili” che secondo Bateson permettono di raggiungere un atteggiamento rispettoso, umile e sacro.
Il desiderio di connessione continua!
Non credo che la spiritualità sia un concetto che possiamo più permetterci di trascurare, pur scegliendo di occuparci degli aspetti psichici. Ce lo evidenziano gli incontri con i migranti e la loro sete di sopranaturale, ce lo accennano alcuni utenti occidentali con cui lavoriamo, me lo confermano molti colleghi stranieri, forse più eticamente attenti all’evolversi della pratica del vivere e all’apertura, in questo momento storico, alla ricerca di armonia, pace e spiritualità.
D’altronde “lo spirito” era stato proibito ai fedeli dalla chiesa come un passo eretico se non mediato dal clero stesso[4] e solo negli ultimi anni sembra tornare zona franca. Gurdjieff (1963), saggio guru che al raggiungimento del sacro ha dedicato la vita, inventa a sua volta il kundabuffer come organo che ci è stato impiantato dagli arcangeli e ci mantiene nel sonno della coscienza, che ci fa vivere con i piedi attaccati a terra, ci impedisce di svegliarci in quanto vissuti dalla biologia. Alcuni errori lo alimentano: A. mentire a sé e agli altri, B. reprimere quello che si sente, C. identificarsi con un ruolo, D. proiettare sugli altri i nostri stati d’animo e i nostri timori. Più che abbastanza per restare “spenti”.
Interessante come Eister e Montuori (2003) suggeriscano che esistono due modelli per abitare il mondo e leggerlo, per posizionare la mente. Uno organizzato dalla dominanza delle credenze, delle strutture e dei rapporti gerarchici e un altro organizzato dalla condivisione. Si tratta di modelli che impostano ogni sfera del vivere. Nel primo l’umano è separato dal resto del mondo e la spiritualità è conseguenza di un’astrazione: ci si isola, si va nei templi, si ritaglia uno spazio ad hoc per introdurre il sacro. Il modello della condivisione invece non è solo trascendente ma anche immanente, basato sulla cura e sull’empatia, sulla connessione. Questi sentimenti, così come il rispetto, la gratitudine e la non violenza, vengono embricati in ogni azione e in ogni momento, sono incarnati nel vivere quotidiano, rispettoso della molteplicità. La spiritualità non diventa qualcosa di isolato nell’individuo né qualcosa che ci estranea, non si tratta neppure di un fenomeno intrapsichico che ci cambia singolarmente, quanto piuttosto di un processo sociale incorporato che influenza il rapporto con ogni cosa: una pratica sinceramente relazionale.
L’accesso al Sacro non è immediato né avviene intenzionalmente bensì “naturalmente”. Possiamo però intraprendere un percorso che ci permetta di affinare le nostre capacità percettive e possiamo imboccare un cammino di alfabetizzazione al Sacro attraverso le vie più disparate. Gli autori offrono quattro strade per ampliare la nostra potenzialità ad esso: 1. amplificare la capacità di ascoltare la nostra saggezza interna; 2. diventare totalmente consapevoli degli altri, di ciò che accade intorno a noi, per innescare un coinvolgimento attivo con il resto del mondo; 3. impiegare empatia, cura, attenzione, senso di responsabilità verso di noi e verso gli altri; 4. apprendere ad agire in maniera partecipata.
Come psicoterapeuti ci occupiamo del piano mentale, emozionale, inevitabilmente anche di quello fisico. Oso utilizzare la parola “spirituale” in questo dibattito e aggiungere una dimensione nella relazione. Ho avuto un assaggio di una conoscenza di connessione cui sempre più umani hanno accesso: implica la rinuncia alla separatezza a favore dell’unione con il macrocosmo, con l’amore universale; la consapevolezza che tutta l’energia dell’universo si trova in tutto ciò che esiste; il desiderio di approfondire il mistero della vita e il significato di essere umani; la capacità di aprirsi ad un amore incondizionato per tutto ciò che esiste, per ciò che è vivo e per l’esistenza in se stessa. Sono consapevole che accedere alla spiritualità sia un cammino che comprende delle tappe[5] che portano sempre più ad essere consapevoli in ogni gesto dell’organizzazione del mondo. Ho fatto pratica nel rintracciare l’invisibile nei gesti quotidiani, nel riannodare i fili delle tradizioni e connettermi con il passato e il futuro, nel vivere nel micro come fosse un frattale del macro. Perché il visibile e l’invisibile si influenzano a vicenda; perché è questa necessità di relazionalità e di scopo che giustifica la possibilità di introdurre la dimensione spirituale anche in psicoterapia.
Tempo, spazio, stirpe; vento, ombra, albero, farfalla; ying/yang vs spiritus-animus-anima (taoismo); la vitalità, il fiato, la pulsazione, lo sguardo (cultura indù); intelletto, anima, mente, cuore, numinosità, animo, spirito (gli strati che Dio benedice nel XVI salmo del Talmud); corpo, animo/thymos, anima/psiche, mente/nous, spirito/pneuma/ logos, genio/daimon, intelletto/gnosis (cultura grecoromana); corpo, anima, ragione, sono le distinzioni che utilizziamo più frequentemente ai giorni nostri. Le topografie dell’umano si diversificano ma secondo Zolla (1989) sono sovrapponibili. Un discorso sul sacro implica però distinguere anima (Io grande, antenna) e spiritualità. L’anima è un sistema di relazioni, una parte di noi cui ci si può solo affacciare, ciò che resta di noi quando ci liberiamo delle cose terrene, un’area vasta cui si accede nell’innamoramento. “Sei nell’anima quando trasformi la tua vita in un’opera d’arte, sono nell’anima iniziati e artisti. – mi ha detto un amico ‘illuminato’ – Si tratta di un’entità atemporale in cui tutto è presente. Amore e accettazione sono le strutture della spiritualità. Vivendo abbiamo il compito di accedere a un’altra dimensione senza tempo, quella spirituale: rinunciare a ciò che sono per diventare ciò che voglio essere. Perché il processo di individuazione non ha mai fine. Il rapporto tra corpo, anima e spirito è come il rapporto tra saturno (il corpo), la luna (l’anima) e il sole (lo spirito) nella nostra cosmogonia.” Si tratta forse di imparare a collegare l’anima individuale con l’anima del mondo.
Un discorso sul sacro implica interrompere quella “desertifica-zione spirituale del soggetto storico moderno” (Zolla 1989), cogliere principi unitari senza accedere ad un discorso religioso, senza mettere in campo Dio, come se sapessimo di cosa stiamo parlando. Ma dove si rintraccia il sacro? Bianciardi nel 2010 scrive: “Credo sia possibile sperimentare nelle relazioni umane, e a volte anche in psicoterapia, rari momenti in cui sembra di incontrare l’altro in un luogo ‘sacro’: quando ci pare di incontrarlo, ad esempio, là ove qualcosa di non detto cerca di farsi parola (e questo, naturalmente, vale anche nell’incontro con noi stessi). A ben vedere, ritengo si tratti precisamente del luogo ove si articola la misteriosa relazione tra elemento e contesto: là ove l’individualità si distingue, ponendosi come soggetto di una narrazione, la quale emerge dal (si appoggia a, si nutre di, è sottomessa al) racconto dell’altro, e/ma grazie a ciò inizia a partecipare in modo autonomo ad in-tessere quel contesto di relazioni da cui sta distinguendosi. Propongo quindi che l’incontro con l’altro venga vissuto come sacro quando il farne parola (a volte per la prima volta) permette una articolazione di ciò che era sovrapposto e confuso, permette di sentire anche come rappresentazione ciò che prima semplicemente veniva vissuto come un dato di realtà.” Un momento di comunione, un amplificato senso di consapevolezza e una sensazione accresciuta e panoramica di conoscenza, come scrivono Senge e coll. (2004). E’ capitato anche a me di avere nella relazione terapeutica una sensazione di commozione, di sacralità di quello che era avvenuto, quando riuscivamo insieme ad accedere a gestalt mai proposte prima, che proponevano un punto di vista mai indagato precedentemente. Concordo con Vincent Kenny (1998) quando sostiene: “Noi possiamo e dobbiamo superare la nostra propria conoscenza inventata, provocando uno slittamento e muovendoci oltre i ‘limiti del linguaggio’, mettendo in dubbio i limiti stabiliti all’azione ed i limiti stabiliti al dare significati, ed entrando per scelta nel dominio dove la nostra comprensione si distrugge. La volontà di fare questo sforzo impossibile è un sintomo della presenza del Sacro: ossia lo sforzo di spingersi oltre il confinante imprigionamento della lingua ed arrivare nell’ignoto, nell’indicibile, nell’improducibile senso di una mente più grande (Mindfulness).”
Sempre più la terapia deve superare le narrazioni più volte riproposte ed elaborate che i clienti ci portano, che sono spesso sature, per inoltrarsi in aree sconosciute nella relazione; sempre più i problemi con cui siamo confrontati si riferiscono ad esperienze tacite e preverbali e necessitiamo di andare in questo dominio che viene agito nell’area del possibile da gesti e rituali, varchi che possono portare solo in seguito ricordi e sensazioni.
Certo lavoro clinico permette, a mio avviso, di accedere a una forma di conoscenza del mondo e consente di vivere l’esperienza su più registri, uno dei quali ha a che fare con la reazione che si è in grado di produrre, un altro con la capacità di accedere all’apertura del cuore, al di là delle parole. Si tratta di pensare in termini verticali e orizzontali, piani sovrapposti dal più concreto al più astratto, dal più quotidiano al più ipotetico. L’immagine che prediligo è quella dell’Universo come cantiere, incompleto, rispetto al quale noi siamo gli operai. Ciascuno è il creatore del suo giardino che è anche giardino dell’universo: siamo i giardinieri ma contemporaneamente i fiori e i cespugli. In terapia questa ipotesi implica accettare di non agire subito, di non comprendere tutto, di considerare le relazioni come imprescindibili. Attestarsi cioè sulla posizione del sapere di non sapere, sulla propria ineludibile ignoranza e sulla presenza inevitabile di zone cieche e inevitabili collusioni.

Parlerò nelle prossime pagine di un atteggiamento etico ed estetico da parte del clinico, un posizionamento che personalmente sento utile e proficuo, che influenza 1. l’atteggiamento dell’operatore, 2. gli eventi cui si presta attenzione e 3. il clima che si crea nella danza comune. Accennerò ad una serie di operazioni necessarie e non sufficienti per onorare il livello spirituale. Credo comunque che questa dimensione possa emergere solamente a patto che il terapeuta la abbia nelle sue corde, credo che sia nostra la scelta del livello di concretezza al quale rimanere nel lavoro comune. Chiaramente i limiti della via iniziatica e dell’apprendimento sono determinati dalla propria natura e dalle proprie scelte, dal proprio percorso di vita. Richiedono inoltre una dura disciplina, il confronto con altri saperi e altre matrici generative. Mi fa notare uno dei revisori che spesso i giovani colleghi preferiscono fondare sull’empatia emozionale la loro risorsa anziché affrontare la dura disciplina del proprio cammino spirituale.

Cum-prendere (afferrare/toccare insieme) ciò che ci viene narrato

A volte, quando si va a vela in mare aperto si avvistano i delfini. Se si è fortunati capita che i delfini affianchino la barca, giochino tra loro, con le onde, con lo scafo. A volte capita un incontro di sguardi e nell’incontro, esattamente come in quello con una balena nei mari del nord, si riceve la sensazione di essere connessi con l’universo tutto.
E’ come se sapessero cose che noi ignoriamo. Lo stupore, l’inusualità dell’evento, la delicatezza nel tentativo di trattenerli con noi fanno sì che si perda il proprio senso di sé per concentrarsi nella danza comune. Squittiscono, giocano, sembrano farlo per noi ma anche noi ci sporgiamo, emettiamo suoni, li accogliamo con amore e gratitudine.
Quando è successo ho sentito che la separazione tra noi era annullata e per un attimo mi sono sentita perfettamente felice.

Di fronte ai drammi che le persone portano mi sento a volte a confronto con qualcosa di immenso e contemporaneamente piccolo piccolo. La solitudine, il silenzio sconfinato che il dolore arreca mi appare come la vista delle dune di un deserto immenso e cerco rituali collettivi che a volte non esistono più. Credo di dover rendere omaggio al tempo, rispettarlo, indagare il passato personale oltre che trans- generazionale, il flusso della vita che giustifica quello che sta accadendo nel qui e ora. Quindi mi occupo della storia personale e familiare e – se la situazione non evolve – accedo a quella delle generazioni passate: indagare le generazioni passate è la stessa cosa che riflettere sulla mente del singolo nel qui e ora, ambedue sono frattali di un tutto, ambedue offrono un disegno simile e ripetitivo di ciò che sta accadendo. Devo anche rendere presente il futuro: cosa vuole la persona per sé, che cosa sta apprendendo nel qui e ora della crisi? Se la sofferenza fosse un apprendimento verso una maggiore coerenza di sé, quale messaggio il cliente deve accogliere e recepire?

Antonia arriva in terapia disperata. Il suo compagno l’ha presa e lasciata tante volte e lei è ossessivamente invasa dalla sua immagine. Si ripete le azioni degli ultimi mesi, analizza ogni particolare, si domanda “perché” impossibili da rispondere. Mi addoloro del suo terribile dolore. Sento di doverlo interrompere senza squalificarlo e senza minimamente negarlo. Mi domando in che modo il tema dell’abbandono risuoni nella sua famiglia, quanto della sua ossessività abbia a che fare con l’uomo e quanto con la sua paura di ritrovarsi sola, quanto con il senso di disfatta di fronte ad una sfida che ha intrapreso anche nella difficile vita lavorativa. Con chi? Con lui, con se stessa, con la madre conquistatrice che ha sempre avuto storie parallele al matrimonio, con il capo che la squalifica. E che significato ha l’essere abbandonati per me, come vi reagisco, come l’ho gestito nella mia vita?

Com-prensione significa assumere insieme all’altro ciò che ci viene portato, attraverso “il cuore della mente”. “Sentire una dimensione di sacralità nell’incontro con l’altro può allora significare quel raro e un po’ magico momento (un momento che non può comunque essere cercato consapevolmente) in cui per un attimo ci è dato ‘sentire’ l’essere-uno e l’essere-distinto. In cui ci è dato sentirci insieme e nello stesso tempo distinti, compresenti e pur tuttavia non confusi.” scrive Bianciardi (2010).
Com-prendere significa anche prendere in considerazione il processo generativo. Come scrive Varela (1991): “Sciftare la nostra attenzione verso l’origine più che verso l’oggetto”. Domandarsi che cosa mantiene le persone dove sono, quali presupposti e relazioni rinforzano i problemi che ci sono stati portati, che significato hanno e anche quale valore adattativo ed evolutivo svolgono. Ma anche “lasciar andare”, lasciare che ciò che sta succedendo accada, andando oltre la dualità tra soggetto e oggetto, per vivere il presente in maniera non giudicante.

Non si tratta di una comprensione intellettuale né solamente emotiva. Non si tratta di “lottare” contro i sintomi ma di comprenderli e di lasciare alle persone il tempo di digerire ciò che insieme abbiamo elaborato/ridefinito/decostruito/ipotizzato. L’intuito, la capacità di vibrare insieme, la capacità di fare connessioni, di integrare le esperienze degli altri con le nostre, la possibilità di accedere a simboli collettivi, a narrazioni private, l’ascolto partecipato, si affiancano alla comprensione emotiva e intellettuale di ciò che sta accadendo. Cum-prendere significa fare ipotesi sul ruolo dei soggetti nella creazione del loro dolore, domandarsi in che modo la mente e le relazioni e la nostra stessa partecipazione alla danza semantica creano/mantengono/incistano i problemi. Il nostro sistema di credenze crea la realtà: quali identificazioni non permettono un’evoluzione? In quali modi ci facciamo usare dalla razionalità, dalla cultura, dalle abitudini, perdendo l’unione e la leggerezza? Creiamo blocchi nella nostra consapevolezza che ci impediscono di procedere, pattern ripetitivi che ci portano ad andare in cerchio. Imparare a lasciare andare i pensieri che fanno emergere quello che non vogliamo è utile, a volte indispensabile. L’unico modo per influenzare l’esterno è comprendere come la nostra mente e il nostro cuore colludono con quello che sta avvenendo. “Cambia la tua mente e cambierà il mondo”, dicono i saggi: significa che per cambiare l’esterno è necessario che mettiamo in discussione le nostre credenze, trascendiamo la mente razionale, la rendiamo un servitore piuttosto che il nostro dittatore. “La paura è il risultato di un’impurità di pensieri – sostiene Ram Dass (1970) –che ci definiscono come separati dal resto dell’Universo.”
Le operazioni che elencherei nel cum-prendere sono: 1. aprire il cuore e sentirci coinvolti; 2. vedere dall’interno; 3. afferrare/ipotizzare lo scopo di ciò che dovrebbe accadere; 4. connettersi come co-partecipanti ad una realtà olistica che accomuna; 5. rendere presente il futuro; 6. diventare un tutt’uno con la situazione. Per riassumere, creare un clima di ascolto e di non giudizio.

 

Accettare la multidimensionalità e l’unione con il tutto 

Sono stata in Perù nella foresta amazzonica per incontrare gli sciamani e ho camminato a lungo per raggiungere un villaggio ecosostenibile in mezzo al nulla.
Ho camminato tra alberi così alti che non facevano ombra e sono stata sorpresa dal rumore che la foresta fa: alberi e rami che cadono, rumori di uccelli e altri animali amplificati dai corridoi della vegetazione. All’inizio avevo la sensazione che la foresta pluviale fosse divisa a strati, come una torta, ogni strato un ingrediente diverso, in uno gli uccelli e le fronde, in un altro i coleotteri e i fiori, in un altro ancora noi umani e le capanne, anche alcune TV accese e molto rumorose, in un altro la terra, le formiche, gli insetti e poi un altro fatto da ciò che non vediamo e che è sotterraneo: serpenti, radici, altri animali nascosti. Per un attimo ho sentito di far parte del tutto.
E’ stato un attimo di pace e di mancanza di confini della mia mente, come non ci fosse più un Io. Appena ho provato a far continuare questa sensazione è sparita.
Accettare la multidimensionalità significa valorizzare la conoscenza nella complessità, prendere in considerazione il sistema del quale facciamo parte e nel quale siamo incarnati, significa comprendere il gioco più grande di noi che ci include. Si tratta di andare dal tutto alle parti e viceversa, di diventare attivi partecipanti a ciò che potrebbe accadere anziché passivi osservatori, organizzati da mappe precostituite.
Implica direzionare in modo alternativo la nostra attenzione, guardare oltre la superficie, accedere ad uno stato di mindfulness come consapevolezza non giudicante delle connessioni tra gli eventi, rispettare la molteplicità sulla Terra. Significa non sperimentare il mondo solo come qualcosa di dato a priori ma considerare anche il processo che sottende ciò che percepiamo: il mondo si srotola utilizzando anche noi. “Vedere il pattern più ampio permette alle persone di sentirsi profondamente connesse e rese più potenti. Questa conoscenza interna nasce dal cuore” sostiene Otto Scharmer (Senge 2004). In terapia significa andare oltre il copione usuale per vedere un disegno più grande che implica varie generazioni, più storie, descrizioni multiple e la possibilità di rendere presente il futuro e abitare il presente. Significa anche andare “oltre” l’individuo e permettere ai clienti di sentirsi parte di una famiglia, di un gruppo, di una comunità, di una cultura, del genere umano, della natura, dell’universo, perché essere vivi è essere parte di una vasta combinazione di relazioni. Significa accedere a più dimensioni temporali, rispettare la complessità e accogliere il cliente nella comprensione che noi abbiamo del mondo. Personalmente credo che un terapeuta bidimensionale non riesca ad accompagnare il proprio cliente in una dimensione più densa di quella che ha raggiunto personalmente.

 

Privilegiare la trasformazione del curante 

Nel 1992 ero in Buriazia per partecipare al primo pellegrinaggio degli sciamani mongoli e buriati all’isola sacra del lago Bajkal, dove si dice che sia nato il primo sciamano. Eravamo in tanti, in quell’occasione ci sentivamo cittadini del mondo.
Ciascuno di noi era arrivato con aspettative personali e con il desiderio di partecipare ad un evento collettivo. Faceva freddo malgrado fosse giugno, la costruzione del fuoco attorno al quale cantare e raccoglierci è diventato un rituale fondamentale che occupava parte della giornata. Gli sciamani che presiedevano ai riti collettivi ci chiedevano di esplicitare il nostro intento, di immaginare la strada per esaudirlo, di raffigurarne le tappe per tornare a casa “diversi”. Malgrado la loro cultura fosse molto lontana dalla nostra, riuscivano – attraverso piccoli gesti – a stravolgere i copioni con cui ci presentavamo e riuscivano a stimolare nuove possibilità, nuovi punti di vista.
Il compito era quello di ricostruire ogni giorno l’armonia di ciò che ci era accaduto e di ciò che avevamo condiviso con loro e tra noi, quasi mai usando il verbale. Sono tornata a casa profondamente mutata, avendo preso decisioni importanti per la mia vita.

Come clinici siamo portarti a riflettere sulla salute e sulla malattia, sulla vita e sulla morte, sulla nascita. Non ci viene insegnato invece come metterci in sintonia con le leggi della natura, come percepire la nostra partecipazione al cosmo dentro di noi. E’ fondamentale considerarsi parte del processo, fidarsi nello stimolare un’associazione tra cuori e visioni del mondo, per portare anche l’altro al livello di consapevolezza che noi abbiamo raggiunto. La dimensione trascendente è lasciata al percorso personale quando invece lavorando in psicoterapia ci si accorge che ciò che abbiamo da offrire è noi stessi e il nostro atteggiamento verso la vita, la nostra consapevolezza, la capacità di usare un pensiero abduttivo[6], di mollare i vincoli delle spiegazioni causali e riduttive. L’atteggiamento è quadruplice, da una parte si tratta di favorire il “noi”, abbandonando l’idea che agiamo su qualcun altro per realizzare l’incontro; contemporaneamente significa lavorare su di sé per superare i propri pre-giudizi, accrescere i propri livelli di libertà. Implica anche accettare la responsabilità sociale da cui si è investiti e monitorare il processo perché vi accada qualcosa di significativo. Venir attraversati da una curiosità che metta in contatto con leggi generali è la quarta operazione che il curante può fare: la complessità richiede un’indagine condivisa, non per risolvere i problemi ma per ri-definirli insieme. Curiosità vuol dire anche leggerezza, irriverenza, investimento in ciò che accade, capacità di non cadere nella trappola dei sintomi, della gravità della situazione, nella mente come a priori. Non ci sono vittime e carnefici, se mi soffermo solo sul male è perché non riesco a vedere il modo integrato, perché cerco l’omogeneità dove ci sono solo differenze.
E’ necessario e inevitabile che anche il clinico sia disposto a mettersi in discussione. Il clinico potrà venir più o meno trasformato dalle storie che ascolta, a seconda del suo atteggiamento e della disponibilità a farsi perturbare. Esistono differenze epistemologiche nell’atteggiamento verso il processo, chi lo considera un percorso tecnico volto al cambiamento e chi lo considera un percorso esperienziale dialogico al fine di aprire possibilità condivise. Per questo, scegliendo la seconda alternativa, preferisco parlare di evoluzione piuttosto che di cambiamento e mi interesso ad aspetti anche marginali, pensando che anche una chiacchierata su argomenti ai bordi del lavoro psicologico sia fondamentale.

Lavoro con R. Cerco di accompagnarlo fuori dai farmaci, creo barriere tra lui e suo padre che lo critica e lo giudica “uno psicotico duro”. Poi, dopo un periodo in cui R. sta meglio, è più attivo, ha iniziato una vita sociale, R. inizia di nuovo a non dormire, ha pensieri di riferimento, appare agitato. Che preoccupazione, che paura! Cado nella stessa paura che ha lui e che hanno i suoi genitori. La mattina che lo devo incontrare “maniacale” mi sveglio all’alba e cerco di fermare i miei pensieri. Costruisco volontariamente immagini del suo periodo di benessere e mi spingo ancora più avanti, ad immaginare che riesca a tenere un lavoretto, a ritrovare la sua centratura. Se il nostro pensiero è connesso in una matrice comune, è bene che non cada nella trappola di preoccuparmi anch’io. Devo offrire a noi due la possibilità di usufruire di un sottotesto, di una mente condivisa che non sia inquinata dalla paura. Io posso farlo, se ci lavoro ci riuscirò, lui in questo momento no.

Alcune operazioni sono più utili di altre per raggiungere il mio scopo:
Stare nel qui e ora significa per me usare i pensieri che arrivano ma non credervi mai completamente, essere consapevole delle emozioni/sensazioni che emergono e scegliere se e come utilizzarle anziché venir organizzata da esse. Significa onorare ciò che sta succedendo nel qui e ora della relazione, facendo incursioni nel passato e nel futuro al fine di illuminare il tempo presente in maniera gioiosa e piacevole. Significa comprendere l’auto-regolazione/produzione/ correzione/mantenimento del sistema e della più estesa partecipazione al mondo; anche la consapevolezza della inevitabile possibilità di colludere. Significa ascolto profondo. Significa infine abbandonare l’usuale e inoltrarsi in territori sconosciuti per “permettere che avvenga qualcosa.”
Sospendere il giudizio è un’operazione che si apprende dopo molti anni di pratica, un or8izzonte cui tendere. Francisco Varela ne parla come della “capacità di uscire dall’usuale flusso di pensieri” e lo considera il primo gesto per aumentare la consapevolezza. Non si tratta di fare una tabula rasa, di buttare a mare ogni nostro modello ma di avere una consapevolezza epistemica che ci permette di rintracciare i presupposti che guidano ogni definizione, di confrontarci con le nostre premesse e quindi poter decidere anche di non agire. Si tratta di vedere la nostra vista, di interrompere quella voce giudicante plasmata dalla cultura e dalle nostre abitudini, di uscire dalla colpevolizzazione. Non scendere a conclusioni, fidarsi del processo, al massimo costruire un multiverso di possibili ipotesi complementari fra loro; implica la capacità di vedere le cose come accadessero per la prima volta, senza ricadere il percorsi automatici e già tracciati. Ogni seduta a se stante, ogni problema come fosse diverso: la ricerca dell’integrità del sistema che ci include.
Aspettare vuol dire non voler agire subito; onorare il tempo, fare emergere alcuni stimoli che non devono necessariamente essere i più determinanti. Saper guardare senza dover intervenire, permettere ai processi di accadere, fluttuare. Uscire dalla mentalità di problem solver, dalla visione dualista di curante e curato, di problema separato dalla persona. Uscire da una visione tecnica del nostro lavoro. Personalmente ho dovuto apprendere ad “ascoltare il silenzio” e a non riempire ogni spazio con la comprensione.
Concedersi la vulnerabilità significa accettare di non sapere (tra gli altri Telfener 2011, Bianciardi Telfener 2014) e permettersi di non avere risposte, di poter stare in silenzio. Significa sintonizzarsi sul dolore dell’altro, soffrire e comprendere il dolore e fare contempora- neamente ipotesi e connessioni processuali. Mi è capitato in seduta di avere le lacrime agli occhi per ciò che veniva detto e me lo sono concessa.
Apprendere dagli altri vuol dire essere disposti ad imparare, considerarsi in un costante processo di espansione e contrazione. Ogni persona che arriva a chiedere aiuto ci insegna qualcosa su noi stessi e sul vivere. Il lavoro consiste nel comprendere quella parte di noi che ci viene rispecchiata ed integrarla. Questo permette di restituire al cliente una visione evolutiva del processo del vivere.

 

Aprire un credito all’altro

Ho vissuto a Roma di fronte all’appartamento del famoso artista concettuale Chy Twombly. I suoi quadri vengono pagati milioni di dollari e abitano le pareti dei maggiori musei di arte contemporanea. Il pittore andava su è giù per il suo lungo studio, di solito in mutande, con un gessetto tra le mani dietro la schiena. Io stavo compilando la mia tesi, ferma alla scrivania, lui andava su è giù per ore nel palazzo di fronte. Ogni tanto faceva un segno sull’enorme tela appesa al suo muro, poi riprendeva a camminare, totalmente assorto. Sembrava posizionarsi con i segni che lasciava rispetto a chi era, alla sua storia e alla visone di ciò che stava emergendo sulla tela, a cui partecipava attraverso il suo pensare/sentire/scarabocchiare. Non agiva per deduzione, non sembrava avere una gestalt del risultato, sembrava spinto da un moto interno che dava senso a ciò che veniva a galla sulla tela. Sembrava un tutt’uno con il suo dipingere. Personalmente ne ero affascinata.

Il fine del nostro lavoro credo sia il benessere dell’individuo, per accedere ad un benessere collettivo. Non esiste il singolo da solo, mai.
Il fine cui pervenire è il benessere collettivo, l’armonia tra le persone, la generosità nei confronti di se stessi e degli altri. Personalmente credo di far parte di una famiglia planetaria interessata alla pace e capace, col tempo, di raggiungerla. Fiducia, guarigione, armonia, bene, sono miei valori. Chiedo spesso ai miei interlocutori in psicoterapia quali siano i loro. A che cosa aspirano, che cosa li sorregge? Che cosa vorrebbero che le loro vite contenessero? La spinta al cambiamento nasce dalla conferma di sé ricevuta nello scambio e dalla ritrovata capacità di sperimentare empatia, connessione e gratitudine. La spinta al cambiamento è correlata anche a come ci si rispecchia negli occhi dell’ altro e se ciascuno è capace di riconoscere o meno le proprie e altrui risorse: l’occasione di due persone che si incontrano e che attraverso il riconoscimento reciproco costruiscono una forza condivisa che diventa in qualche modo “sacra”.
La fiducia nell’umano e nelle sue capacità di evolvere e di migliorare è una delle condizioni necessarie ad un clinico. Credo che qualora non riusciamo a vedere l’evoluzione positiva di una situazione partecipiamo alla sua disfatta, al mantenimento dello status quo.
Partecipare al giudizio negativo, credere alla severità di una situazione non è una strategia ottimale per farla evolvere. Il rischio è quello dell’invischiamento nel dolore dell’altro, a volte si finisce per credere che questo dolore sia ineliminabile, si partecipa a costruire la cronicità.
Attivare le forze rigenerative e auto-guaritive delle persone significa invece non cadere nella trappola dei sintomi e non bloccarsi al livello di comprensione che il cliente propone ma accedere alla nostra saggezza intuitiva, per offrire agli altri il nostro livello di connessione con l’energia generativa e farci raggiungere nel processo evolutivo. Significa anche creare un ambiente sicuro in cui si possano esplorare molte alternative. Diventa inderogabile non farsi implicare, non colludere, ma anche non spaventarsi, non smettere di cercare, qualunque sia il problema presentato. Sia di memento il detto di Zolla: “Gli umani si fanno trasportare dalle loro biografie (mentre) la nostra esperienza del reale è in funzione di come lo concepiamo e siamo liberi di concepirlo come vogliamo.” (1981 pp.14 e 16).

La felicità/curiosità nell’accogliere un cliente differisce dall’atteggiamento che si può assumere se pensiamo che “lo dobbiamo vedere così com’è”. La disponibilità a raccontare un aneddoto, la voglia di condividere, il rispetto e la stima, il piacere della compagnia e la capacità di anticipare la piacevolezza della conversazione fanno parte anch’essi degli atteggiamenti rispettosi dell’operatore.

 

Andare “naturalmente” verso ciò che si vuole ottenere

Sono andata a farmi leggere il futuro attraverso le foglie di coca, le conchiglie, le foglie del tè, i fondi di caffè, sassolini, ossi, monete, bastoncini, anche bottoni di plastica colorata (!). Sono andata in vari paesi del mondo. Ogni volta il processo che mi veniva proposto sembrava un tentativo di armonizzazione rispetto a ciò che già stava accadendo nella mia vita, rispettando le mie ambizioni, i miei sogni, la storia del contesto in cui opero. Non mi è stata mai presentata una verità totalmente estranea, sono stata sempre considerata parte di un ecosistema più vasto e in continuo fluire. Molto spesso sono stata confermata: i miei desideri erano in viaggio, in via di essere esauditi. Lo stesso in psicoterapia, quando dico ad una donna sola che se divorzia da suo padre verrà finalmente molto corteggiata, è più probabile che si guardi in giro – a seguito di questa ipotesi/profezia – e che attiri così lo sguardo di possibili altri.

Ci dichiariamo costruttivisti, significa che pensiamo di partecipare alla costruzione di ciò che emerge nel nostro mondo. Sarà differente se, sentendomi poco amata dal partner, metterò in crisi il rapporto chiedendo continue conferme oppure cercherò di vivere giornate intense e piacevoli insieme. La stessa cosa con i nostri clienti: sarà differente se resterò ancorata sulla malattia, sui sintomi oppure proporrò scenari di guarigione e benessere; se insieme all’altro, agli altri, lasciamo andare i pensieri che creano malessere oppure vi rimaniamo ancorati, se pensiamo alla conversazione come ad un flusso o come ad una fotografia di ciò che sta avvenendo, se ci spaventiamo e indigniamo oppure pensiamo che ogni comportamento e accadimento non fa altro che permetterci di approfondire il mistero del vivere. Rinunciare alla finalità cosciente non vuol dire credere di non manipolare (è impossibile) né accontentarsi di tutto controllare (altrettanto impossibile e anche dannoso).
Il perdono di se stessi e degli altri credo sia una prassi terapeutica non sufficientemente valutata.

Sebastiano è un cinquantenne affermato e diviso tra due donne. Ciascuna lo accusa di essere tirchio di sé, di non essere capace di dedicarsi a loro. Lui è convinto di dare il massimo e mi appare come un uomo in fuga da sé. E’ sempre occupato, non sa a chi dare i resti, non si lascia sfuggire nessuna opportunità, chiede costantemente scusa alle due donne, ai figli e si sente in difetto, senza tuttavia mutare minimamente il suo stile di vita. Mi racconta della sua infanzia – una madre molto distratta e un padre egoista – era stato preso in mezzo tra i loro litigi e si doveva occupare di loro come fosse il nonno di se stesso. Condivido con S. la sua fatica, il suo essere stato spesso trasparente per gli altri e gli chiedo una settimana in cui anziché occuparsi degli altri si concentri su di sé, sui propri bisogni, sui suoi desideri. Sebastiano si commuove, è convinto di essere in colpa per la sua bigamia, perché i figli e le donne lo accusano di essere egoista. Io non lo vedo egoista, vedo un bambino occupato ad esistere, che ha paura di venir squalificato e di soffrire e per questo si dà così da fare. Un uomo tutta testa, molta volontà, ambizione, capacità, abnegazione lavorativa, successi ma senza uno spazio per un contatto emotivo con se stesso.

 

Permettere al cervello destro di partecipare alle sedute

In un villaggio del Senegal, a Yayeme, nel 1994 sono stata da un saltigué, un anziano del villaggio in grado di vedere e di rispondere a domande sul futuro e sulla salute. Gli ho parlato, attraverso un traduttore, di una persona che non stava mangiando. “Perché non sta mangiando? Perché non c’è abbastanza cibo?” mi ha chiesto allarmato. Certo che no. Come spiegare ad un vecchissimo e nodoso africano le manie occidentali? Il saggio ha afferrato subito che il problema era al di là della sua comprensione razionale e mi ha proposto un rituale molto elaborato. Dovevo trovare un formicaio, raccogliere il materiale che le formiche lasciano intorno al foro di entrata … Il rituale, che ho eseguito in maniera puntuale, mi ha fatto emergere molti stati d’animo, il tempo del processo ha portato anche ad alcune elaborazioni. Sarà stata una causalità che quando sono tornata a Roma il problema per il mio “protetto” era in fase di superamento?

La percezione legata al corpo è lineare, esiste però un altro livello di consapevolezza in cui la percezione diventa olografica, in cui non si vedono le cose nel tempo e si esce dall’io e dalla causalità stretta. Una dimensione “amorosa” la chiamano gli sciamani, fatta di consapevolezza, energia, della capacità di accedere allo spazio dentro di sé che è amore e consapevolezza per l’Universo intero. Il pensiero abduttivo favorisce questa dimensione e lo si mette in atto smettendo di voler comprendere e lasciandosi trasportare dalle associazioni, da pensieri trasversali, dalle proprie fantasie: lasciando che la propria attenzione sia attratta da particolari e sfumature.

Marta ed io facciamo un lavoro molto intenso. E’ una donna affettivamente sola che ha fatto molti passi per cercare una sua stabilità. Ha lavori precari e amori sporadici, mentre racconta di un mondo interiore fatto di solitudine e immagini che le appaiono vividamente in testa. La faccio parlare con ogni parte di sé che partecipa al suo quotidiano anche per comprendere il significato delle sue immagini che scelgo di non definire “allucinazioni”. In una visione olistica penso piuttosto a delle “porte” che aprono ad altre dimensioni della sua consapevolezza, che a volte sono solari, altre volte alludono all’auto-distruzione e alla solitudine. Chiedo alle sue voci di raccontare la loro funzione nella sua vita e nel suo percorso evolutivo. Scopriamo così che M. è organizzata dalle sue esperienze infantili in cui si è presa cura in maniera determinante di una madre borderline e una sorellina piccola, ambedue emotivamente a suo carico già quando lei aveva tre anni. Quest’esperienza ha determinato ogni successiva scelta di Marta e anche – profondamente – la sua paura, il suo terrore di compiti e responsabilità.

 

Favorire la ritualizzazione

Gli All blaks, i campioni del mondo di rugby, hanno organizzato un rituale per diventare un tutto con il gioco e per intimorire gli avversari. Si tratta di una danza sempre uguale, ritmata e accompagnata da gesti ed espressioni arcigne e bellicose. Mi immagino vadano in una sorta di trance nel praticarla, accedendo all’energia della loro storia, delle passate vittorie, delle strategie vincenti che hanno organizzato assieme. Trovano l’unione tra loro, costruiscono una mente collettiva e condivisa che emerge dai gesti uguali e ripetuti e dall’immagine che gli rimandano coloro che li stanno osservando.

Quando si partecipa alle costellazioni familiari, il costellatore stabilisce inizialmente un rituale perché si crei un cervello cibernetico capace di stimolare un campo morfogenetico (Sheldrake 2008) in cui emerga un sentire comune, quindi la possibilità di sintonizzarsi anche sui copioni degli altri e agire le costellazioni.

Per gli individui il sintomo spesso fa da spartiacque tra un prima e un dopo, possiamo immaginarli come un’occasione per fermarsi e interrompere una vita automatica e per comprendere le radici del proprio funzionamento. Così come nella via iniziatica tra il prima e il dopo si assiste ad una sorta di morte simbolica, così anche nella psicoterapia si deve spesso sacrificare la vecchia identità per raggiungere una visione del mondo più complessa. Le cerimonie e i rituali aiutano questo processo purché vengano dal cuore e non siano tecniche scese dall’alto. Potremmo pensare al lavoro psicoterapeutico come un lavoro iniziatico in cui si recuperano le informazioni che vogliamo far emergere da uno sfondo, i capti, le scintille e le si integra in un quadro costruito “con amore”, partecipazione e attraverso uno scambio di doni reciproci.

Conclusioni: un inevitabile atteggiamento etico

Quando ero in Buriazia negli anni ’90 gli sciamani ci hanno insegnato ad onorare la natura. Se prendevi un sasso, un fiore, una conchiglia dovevi riverire la Madre Terra con un pensiero di gratitudine oppure lasciare qualcosa in cambio, un soldino, un’intenzione, un ringraziamento. Era un modo per riconoscere il sacro e celebrare lo spirito in ogni cosa, per sentirsi parte del Tutto.

Ho fiori nel mio studio, una candela accesa, un piccolo apparato che costruisce arcobaleni e ogni mattina quando entro lo riordino perché diventi un luogo piacevole per me e per le persone che incontrerò. Non lo considero uno spazio qualsiasi ma un luogo sacro dove le persone mi fanno l’onore di venire a raccontarmi i loro malanni emotivi, dove insieme ragioniamo sulle emozioni implicate e sul da farsi. Come mi raccontava il mio amico Alfredo Ancora, la sciamana con cui abbiamo lavorato in Buriazia gli ha chiesto una volta: “Prima di lavorare tu preghi?” Alfredo sostiene che ha impiegato molti anni a trovare la risposta!

La salute è un senso di armonia interiore, di appartenenza, che implica la possibilità di essere in contatto con il proprio sé amorevole, con la fiducia nella vita e la sensazione di avere un posto sulla Terra. Il concetto di salute coinvolge tutti i livelli dell’essere: mentale, emotivo, fisico, spirituale ed ecologico. Nel fare terapia siamo presenti in maniera attenta e partecipata e ci poniamo in una posizione di rispetto, focalizzando sulle risorse nostre, delle persone con cui lavoriamo e sugli aspetti processuali del contesto condiviso. Come sistemici creiamo relazioni evolutive basate su un senso di curiosità, di non giudizio e di unione che presta attenzione al rapporto tra epistemologia, teoria degli umani e teoria della tecnica. Si tratta non solo di un atteggiamento di partecipazione e attenzione alle molte dimensioni della clinica (processualità, linguaggio, posizionamento, collusioni con la cultura dominante, per citare le più importanti) ma della possibilità di considerare la psicoterapia come una pratica ‘etica’ piuttosto che ‘medica’ o ‘scientifica’ (Bianciardi 2012). La psicoterapia si occupa dell’integrità e dell’unicità dell’esperienza soggettiva di ciascuno di noi; si occupa del soggetto in quanto individuo irripetibile nella sua complessità, nella varietà delle vicende imprevedibili e indeterminabili in cui è coinvolto, dalle quali emergono un vortice di possibili significati e narrazioni. Lo psicoterapeuta deve assumersi molte responsabilità, non solo quella della corretta applicazione del proprio metodo e delle tecniche che tale metodo prevede. Lo psicoterapeuta deve anche, e soprattutto, assumersi la responsabilità come persona, e diventare responsabile in prima persona, di quanto avviene nell’incontro con l’altro e dell’esito che tale incontro avrà. (Bianciardi 2012). L’atteggiamento etico garantisce il rispetto della complessità, la partecipazione, lo stupore e la multidimensionalità; l’atteggiamento etico costituisce una strada maestra per arrivare al sacro.
Il discorso sul sacro che ho iniziato verrà o meno recepito e portato avanti dai diversi lettori, assimilato e trasformato, prenderà una strada indipendente per ciascuno. Quello che mi sono fidata di scrivere in queste pagine sono riflessioni post hoc, dopo una vita di rigore clinico ed epistemologico, a seguito di una dura disciplina che il nostro percorso richiede e l’incredibile responsabilità che impone. Non a caso il percorso che ho proposto è un punto di arrivo del mio personale cammino e ha senso dopo il lungo tempo dell’intransigenza. Viaggiare e indagare modalità alternative di “cura” è diventato per me un ancoraggio esperienziale che ho confrontato con altre sapienze. Si è trattato di un viaggio personale che non ho fatto in solitudine: un percorso personalissimo ma non individuale e che non terminerà certo con la scrittura di questo articolo, come mi ha fatto notare l’amico Corrado Pontalti (comunicazione personale).
Non propongo che dietro l’apertura di un’altra dimensione cui prestare attenzione (ancora altro??) si nasconda il permesso di fare qualsiasi cosa. Non si tratta di aggiungere operazioni terapeutiche ma di assumere un atteggiamento nei confronti del mondo, degli altri e dei problemi. “Ogni cosa è in ogni cosa” sostiene il fisico Henri Bortoft, apprezzando la meraviglia del mondo.
Consapevole di quanto insaturo sia stato il mio discorso, vorrei congedarmi con il saluto che usano gli indiani quando si incontrano: Na-ma-sta che significa “Onoro la luce dentro di te”.

 

RIASSUNTO

L’articolo ipotizza anche in psicoterapia l’apertura ad un’altra dimensione del vivere, la dimensione trans-personale del sacro e propone alcune operazioni terapeutiche che permettono di avvicinarsi a zone dove “anche gli angeli esitano ad entrare”. Andare a cercare in seduta il filo che unisce il micro con il macro significa mettersi in gioco personalmente e considerare ciò che accade un frattale del tutto.

 

SUMMARY

I consider in the article the possibility of another dimension to which to pay attention in the relationship with clients. I propose the spiritual dimension as an aspect which we must at last consider and I hypothesize some operations which enhance its emergence in psychotherapy. This dimension has become essential for me as a point of arrival of my personal journey and it is made possible after a long time of discipline and rigor.

 

 

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[1] Psicologa della salute, psicoterapeuta sistemica, didatta del Centro milanese di terapia della famiglia.

Ringrazio Emanuele Mocarelli , amico e insegnante, che con il suo corso sull’Albero della vita e la sua amicizia mi ha permesso di approfondire un percorso e allenare la continuità della coscienza. Lo ringrazio anche per la revisione di questo scritto. Lo ringrazio infine per avermi fatto comprendere come La Divina commedia, Il Cantico dei cantici, la Bibblia, e moltissimi altri libri siano libri iniziatici. Ringrazio Alfredo Ancora, psichiatra transculturale e compagno di viaggi che mi ha spinto ad osare di più.

[2] Interessante che sia l’English Royal College of Psychiatry che la British Psychologi- cal Society abbiano interest groups molto partecipati sulla spiritualità.

[3] Questa pratica ha portato alcuni autori anglosassoni a parlare di “psicoterapia buddista”: tra gli altri, la riduzione dello stress basato sulla mindfulness, Kabat­ Zinn 1994; terapia cognitiva basata sulla mindfulness, Segal et al. 2002;  terapia comportamentale dialettica specifica nelle sintomatologie border, Linehan 1993.

[4] Le chiese venivano costruite con navate molto alte per passare la metafora di elevare lo spirito verso l’alto,  il verticale. Anche le vetrate colorate hanno un valore terapeutico, mi spiega l’amico Mocarelli, in quanto i pigmenti che mantengono i colori sono collegati ai chakra e permettono una presa di consapevolezza del percorso e delle simmetrie del cervello oltre che dell’impermanenza della vita.

[5] Le tappe dell’evoluzione spirituale sono ritenute tre: la catharsis, l’opera al nero, la purificazione, il porsi il problema della dualità e l’intenzione di passarci in mezzo, assumendo su di sé la contraddizione del reale; fotismos, l’opera al bianco, l’illuminazione, l’apertura del cuore, il raggiungimento dello stato di presenza; l’eriosis, l’opera al rosso, lo stupore di partecipare alla grandezza dell’universo, il ritorno al tutto.

[6] Di pensiero abduttivo ci parla Gregory Bateson e lo definisce quel pensiero per associazioni che non segue le regole della razionalità.

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