Parlare di Bateson è una grande responsabilità, si può dire tanto ma si rischia di dire tutto e il contrario di tutto. Mi piacerebbe parlare di Bateson non in senso anestetico, utilizzandolo – come spesso avviene – come una gruccia per le idee più azzardate o per quelle ormai accettate da tutti, quanto citarlo per trasmettere la passione che il suo pensiero ha fatto emergere e ancora produce. Bateson, a mio parere, si è infatti fatto travolgere dal suo carattere sensibile che ha permeato una grande idea processuale poi da lui riproposta in ambiti diversi.
Inizierò raccontando un aneddoto che ben evidenzia la difficoltà iniziale rispetto alle sue idee. Nel 1975 facevo il mio internato negli Stati Uniti, alla Philadelphia Child Guidance Clinic; Bateson spesso veniva a Filadelfia per incontrare il suo amico Jay Haley che lì lavorava. Più di una volta sono stata invitata dai due ad un pasto condiviso: che esperienza frustrante! Gregory Bateson parlava quasi ininterrottamente, con grande enfasi, passando da un argomento all’altro, in una sorta di processo primario, ‘caldo’, ricco di emozioni e sensazioni, intriso della complessità e dell’irriducibilità del vivente. Mentre Jay Haley sembrava apprezzare molto la conversazione, io ne uscivo con la sensazione della mia totale idiozia[1]. Più mi sentivo idiota, più cercavo di controllare il flusso anziché lasciarmi andare alla danza che emergeva dall’incontro. Ho così perso un’occasione di utilizzare Bateson come uno stimolo, cercando invece di comprendere parola per parola il suo discorso. Mi è rimasta comunque la fascinazione del suo personaggio e una reverente curiosità di fronte alle sue idee.
Un altro aneddoto: nella conferenza tenutasi a New York, Beyond the double bind, 20 years after, nel 1978 ero seduta vicino ad una “strana” donna, piccola e risoluta, con un lungo bastone che svettava accanto a lei. Appena Gregory ha cominciato a parlare lei lo ha interrotto, sbattendo con veemenza il bastone a terra: “It is not as you say it!!!” Con mia estrema sorpresa Bateson si è interrotto immediatamente e le ha lasciato la parola, con cortesia e rispetto. La donna era Margaret Mead, sua ex compagna di vita e di ricerca, e Bateson sembrava temerla oltre che rispettarla. Le ha dato tutto lo spazio che lei si è presa.
Ho da sempre una sensazione di rispetto di fronte a Bateson in quanto autore e scrittore seminale, in quanto mito del pensiero sistemico e della processualità. Abbiamo utilizzato il suo pensiero, estrapolando diversi elementi delle sue teorie, in base al periodo storico e alla disciplina di riferimento. Lo abbiamo utilizzato come uno spunto, un suggeritore di impressioni, come un avvallo per dare più peso al nostro pensare, come un referente per sentirci in buona compagnia. Il rischio è stato spesso quello di evidenziare alcuni aspetti singoli del suo pensiero e di focalizzare l’attenzione su un particolare, per poi piegarlo ai nostri scopi espositivi, isolando una parte dal tutto e rischiando di congelare una processualità che lui chiedeva fosse in costante divenire. Ciascuna disciplina lo ha utilizzato per i suoi ‘scopi’, rischiando di perdere lo spirito batesoniano in toto[2].
Potremmo invece riflettere sul pensiero di Bateson in maniera trasversale, come un processo che attraversa le discipline, in quanto propone operazioni comuni, coerenti con la complessità. Idee e modi di pensare, sempre e comunque, rispettosi della processualità e della relazionalità.
Sembra quasi che più passa il tempo e meglio riusciamo a utilizzare il pensiero di questo autore. Negli anni ‘60-70 era riconosciuto come importante ma veniva poi semplificato, quasi non ci fossero le parole per esplicitare appieno le sue idee, quasi che la cornice di riferimento condivisa e il clima culturale non permettessero innovazioni e si tentasse di tradurre il nuovo secondo schemi conosciuti e già utilizzati[3]. Oggi il pensiero di Bateson sembra apprezzato in maniera più consapevole; sembra che i tempi siano maturi per comprendere appieno le sue proposte e per mettere in pratica i suoi suggerimenti.
Bateson come rappresentante della cibernetica e della teoria dei sistemi
Se utilizziamo Bateson sfruttando appieno lo spirito che ci ha proposto e riflettendo sulle operazioni che ci ha indicato perdiamo, ed è un bene, la divisione per discipline. Possiamo così rintracciare delle operazioni trasversali, comuni ad esse, che ripropongono sempre e comunque un riferimento alla cibernetica e alla teoria dei sistemi, due ambiti che Bateson ha fatto suoi e al cui sviluppo ha contribuito.
Per quanto riguarda la cibernetica – parola utilizzata per definire un ambito scientifico oltre che un modo di pensare – Bateson l’ha definita “il più importante morso dato dagli umani alla mela dell’albero della conoscenza negli ultimi duemila anni”, il passaggio dall’uso del concetto di potere a quello di comunicazione, dal concetto di energia a quello di informazione. Si tratta dello studio dell’organizzazione degli eventi neurologici, psicologici, comportamentali e sociali; si tratta della scienza che si occupa dell’informazione, dei pattern di collegamento (per esempio le inter-azioni all’interno di una famiglia o di una azienda, di un plesso scolastico o di un ospedale). La cibernetica propone una visione alternativa del problema della conoscenza rispetto alla scienza positivista (che utilizza concetti quali materia e energia e si occupa degli eventi e delle loro cause), affronta i collegamenti tra eventi e determina innovazioni nel rapporto tra stabilità e processi di cambiamento, nell’evoluzione dei sistemi e nella loro auto-organizzazione.
Da un punto di vista operativo l’uso della metafora cibernetica in psicologia, in psicoterapia, nella scienza dell’apprendimento e in quelle dell’organizzazione ha creato una profonda differenza sia nella gestione delle informazioni che nella prassi operativa. Per ogni disciplina di cui ci si occupa, il target diventa la capacità di riflessione dall’interno del sistema che ci vede partecipi attivi e implicati: la capacità di connettersi quindi con il sociale, la capacità di interrogarsi sulle proprie descrizioni (dando luogo a descrizioni di descrizioni), di riflettere sulle proprie modalità di stasi ed evoluzione (per riflettere sulla possibilità di mutare le strategie di mutamento). Il focus si sposta sul “pattern che connette” il sistema consulente al sistema committente, attraverso un processo che mette in atto sia spinte verso la stabilità che verso il cambiamento. La cibernetica, aprendo la scatola nera e prestando attenzione al flusso di descrizioni e di storie condivise, ha aperto le porte alla narrazione e alla condivisione di narrazioni tra colleghi di lavoro, tra membri di una famiglia, tra membri di una équipe didattica.
In questo modo la cibernetica diventa una disciplina che studia l’arte e la scienza della conoscenza e che permette di rispettare l’unione tra il dominio dell’estetica e quello della conoscenza, proponendo connessioni epistemologiche tra scienza, estetica e sacro.
L’altra teoria che ha permesso a Bateson di affrontare la conoscenza da una posizione ‘partecipata’, di rispettarne le radici inserite in un sentimento del mondo, di proporre un’etica del conoscere coerente con l’essere parte dei contesti di cui si tratta, è stata l’ottica sistemica, interessata alle regole di composizione e all’interazione tra parti. Bateson ha utilizzato l’ottica sistemica come una modalità per osservare, come un atteggiamento conoscitivo che lo ha portato ad una presa di posizione forte di fronte alla conoscenza, ad una epistemologia con la ‘e’ maiuscola. Dalla sua presa di posizione derivano poi la sua attenzione costante alla verità sacra delle relazioni, l’attenzione al pattern che connette, la rivalutazione dei significati che emergono dall’interazione tra individui, l’intreccio tra cognitivo e sociale, l’agire per storie. Tutte le proposte di Bateson si rifanno ai dettami della sistemica, se pur da lui espresse in maniera interlocutoria: il modo di osservare, di porsi di fronte al mondo, di proporre un atteggiamento conoscitivo nel superare una visione dicotomica (soggetto-oggetto, biologia–cultura, pensiero–azione, individuo-società), nel fondere il macro con il microscopico (la danza di parti interagenti), nel ricercare la coerenza tra azioni, nel sacro rispetto della complessità e nell’usare la riflessione/ricorsività come strumento di conoscenza. Bateson interrompe la pretesa “immorale” di avere controllo su un modo di essere dipendente dal fatto che siamo in vita.
Che implicazioni ha quindi il lavoro di Bateson per la clinica e per la scuola? Ed anche, che implicazioni ha il lavoro di Bateson per un medico, un’assistente sociale, un politico, un ecologo, un assessore alle pratiche della salute? Proponendo una lettura trasversale dei lavori di Bateson, potremmo ragionare sulle operazioni comuni ad una operatività coerente con i presupposti della complessità. Riprenderò quindi brevemente le operazioni sunnominate, per considerarne le implicazioni operative.
Fare sempre e comunque una distinzione; se siamo noi a costruire le lenti attraverso le quali vediamo il mondo e quindi a fare emergere una realtà piuttosto che un’altra, la distinzione tra individuo e ambiente, tra paziente e clinico, tra alunno come discente e maestro come insegnante, così come la scelta di tracciare un confine attorno alla famiglia, all’individuo, alla coppia, la scelta di somministrare farmaci al membro malato oppure a quello sano, di sottolineare gli aspetti patologici di una situazione oppure i punti di forza, la scelta di prestare attenzione alle idee, alle emozioni, all’inconscio e ai sogni o a tutti questi elementi insieme… sono scelte arbitrarie, giustificate da teorie ed idiosincrasie personali oltre che da pregiudizi e abitudini che faranno emergere un mondo piuttosto che un altro.
Superare una visione dicotomica ha significato fondare una nuova epistemologia basata sulle relazioni e sulla complementarietà dei punti di vista. Ha significato anche non separare l’osservatore da ciò che viene osservato, con tutte le conseguenze del caso.
Operare valutazioni razionali, per esempio, senza tener conto che la razionalità è uno degli aspetti di una personalità, significa operare una semplificazione, rischiando l’inganno e rischiando di perdere la ricchezza dell’intreccio. Il rischio diventa quello di credere ad una realtà data, oggettivamente organizzata, senza tener conto della nostra partecipazione alla sua costruzione. Ogni comportamento problematico è solo il risultato di un impasse nel sistema, oppure può essere considerato anche e contemporaneamente come una manovra per introdurre mutamento nel sistema? Pensiamo ad un malato in un Ospedale generale e a come la struttura rinforzi e amplifichi il suo ruolo di malato, senza minimamente appellarsi alle parti sane della persona, parti che potrebbero contribuire al processo di guarigione. La delega che la struttura chiede, le scarse informazioni che vengono condivise, gli orari che organizzano il ricovero, la costrizione a letto, il cibo insipido offerto ad orari regressivi, l’assenza di collaborazione con i medici….non fanno altro che favorire la regressione del malato che diventerà sempre più malato, perché considerato tale dagli altri e infine anche da se stesso. Una alternativa potrebbe essere quella di appellarsi anche agli aspetti sani e riconoscerli contemporaneamente agli aspetti malati, prendere in considerazione la persona in toto e renderla partecipe nel processo di guarigione. Di questo si sta occupando la neonata psicologia della salute, di cui mi reputo una rappresentante.
Fondere il macro con il micro, contestualizzare, significa osservare un evento singolo da noi fatto emergere rispetto ad uno sfondo e connetterlo con il pattern organizzativo che lo sottende. Significa una attenzione costante e contemporanea all’evento e allo sfondo da cui si staglia, alla costruzione interattiva e sociale delle situazioni. Sembra necessario in quest’ottica prendere in considerazione la vita come connessa agli altri: determinata e determinante ciò che accade attorno. Può un alunno essere valutato per alcune caratteristiche singole senza rischiare una comprensione limitata? Non sarà necessario invece tener conto dei rapporti all’interno della sua famiglia, e si può valutare la sua famiglia solamente oppure bisogna anche riflettere sul rapporto tra le insegnanti della sua classe, tra le insegnanti e la scuola? E’ pertanto necessario contestualizzare il comportamento del ragazzo all’interno di una storia più ampia, che coinvolga anche la storia di quella famiglia, la storia dei rapporti all’interno di quella scuola, i rapporti poi tra scuola e famiglia, tra ragazzi all’interno della sua classe….ma non solo! Il significato emerge nel dialogo tra i partecipanti, in una scambio tra micro e macro strutture.
Ricercare la coerenza tra azioni, significa uscire da una causalità stretta in cui un evento ne determina un altro. Implica l’impossibilità di assumere un luogo privilegiato di osservazione dal quale giudicare. Qual è il rapporto tra ciò che è accaduto in un gruppo classe, in una seduta terapeutica, e quello che sta succedendo nella Scuola o nel Servizio di riferimento? L’osservatore, quindi, non solo è parte e partecipe della nicchia ecologica che lo tiene in vita, ma è anche, ricorsivamente, parte e partecipe della trama di linguaggio che lo precede e che è condizione necessaria del suo porsi e proporsi come osservatore linguistico e quindi come ‘soggetto’…… E’ Bateson stesso che sottolinea come la continuità del contesto non sia un dato oggettivo bensì è costruita, come diremmo oggi. Se un organismo non potesse costruire una ‘realtà’ che, per quanto autoriferita, sia ai suoi occhi stabile, vivrebbe in un mondo ove, ad ogni istante, tutto sarebbe nuovo e sconosciuto, ove quindi sarebbe impossibile apprendere e fare tesoro dell’esperienza e sarebbe anche impossibile sopravvivere.
La conoscenza come com-prensione, significa la cura della propria inconsapevole sensibilità estetica, significa sfidare la tendenza a credere alle spiegazioni che diamo per prestare attenzione, dare spazio all’altro nel fare comune. Significa fare domande e domandarsi, anziché dare risposte. Chi domanda è disponibile ad apprendere dal suo interlocutore e questi a sua volta apprende dalla domanda fattagli e dalla risposta che offre nel rispondere. Se la domanda è sufficientemente interessante e imprevedibile sia chi domanda che chi risponde dovrà uscire dal proprio copione usuale, quindi illuminare altri/nuovi aspetti di sé. Domandare significa porsi in una situazione di sospensione, aprire a nuove possibilità. Domandare implica coinvolgersi in una danza, in un dialogo.
Sempre tante parole, tante domande? Desidero spezzare una lancia a favore del silenzio e dell’attesa, che fanno parte dello stare con, del com-prendere. Non solo parole quindi, perché soprattutto nel silenzio l’emozione può manifestarsi come linguaggio del corpo (lacrime, sorriso, una postura…) Mi viene in mente l’utilità a scuola di leggere un brano e lasciare ai ragazzi il tempo per pensarci, per provare emozioni, per sentire: la possibilità di proporre rituali dal punto di vista narrativo anziché prescrittivo
Utilizzare la ricorsività, la riflessione, l’attenzione alla partecipazione soggettiva nell’essere parte di una realtà più grande. Operare nell’ambito del sociale come nella clinica significa anche mettere in moto processi ricorsivi in cui tutte le parti sono embricate fra loro. Ogni parte è in relazione e non c’è una parte totalmente indipendente nella formazione di un sistema complesso. Si tratta di un processo che fa venire in mente il funzionamento di una candela, per cui le particelle di cera sempre differenti si combinano con l’ossigeno dell’aria per cui la fiamma non cresce e non cala troppo, ma si auto-organizza a partire dai suggerimenti che sono contenuti nella forma dello stoppino, nella forma della candela e nel processo del bruciare stesso; le particelle di cera determinano la fiamma, ma a loro volta le particelle di cera sono determinate dalla fiamma…
Le operazioni di secondo ordine: se acquisiamo una logica del ‘fare’, iniziamo a pensare utilizzando concetti di second’ordine: non ci interrogheremo più sulla corrispondenza del conoscere al reale, bensì scopriremo che il nostro conoscere è un ‘fare’ che crea ricorsività. Fu Gregory Bateson a proporre per primo un concetto di secondo ordine (il concetto di deutero-apprendimento) che permettesse di parlare di soggettività in termini operazionali e senza cadere in tentazioni ipostatizzanti che utilizzino sostantivi quali ‘io’, ‘sé’, ‘personalità’. Poiché costruiamo ‘mappe’ che non descrivono le caratteristiche del reale, non apprendiamo nulla del e sul territorio, ma, inevitabilmente, apprendiamo ad apprendere al fine di pervenire a quella stabilità delle nostre descrizioni che è necessaria alla sopravvivenza.
L’inevitabilità della collusione, dei punti ciechi, dei risultati indesiderati. Chi domanda si pone in una posizione di non sapere e contemporaneamente è consapevole di non sapere di non sapere, ha inevitabilmente punti ciechi.
Bateson come stimolo per nuove idee, nuovi collegamenti
Dopo aver ‘generalizzato’ alcune delle operazioni trasversali più o meno esplicitamente proposte da Bateson, mi accorgo che ciascuna operazione evidenziata non è altro che un aspetto di un unico processo cibernetico-sistemico. Solo dopo aver riconosciuto l’importanza del pensiero cibernetico e sistemico cui l’opera dell’autore si rifà ed essersi umilmente avvicinati ad approfondire la cibernetica e la teoria dei sistemi, ritengo sia possibile rileggere Bateson con una lente che focalizzi su quegli aspetti che possono, di volta in volta, essere considerati di interesse prioritario e pertinenti al proprio ambito di interesse specifico.
Desidero ‘utilizzare’ Bateson e ‘sfruttarlo’ come spunto per una riflessione sulla direzione che sembrano aver preso/prendere alcuni gruppi di lavoro in giro per il mondo (psicologi clinici, psichiatri, insegnanti, assistenti sociali, operatori, manager, altri…) che operano nel sociale e che dicono di trarre soddisfazione dal loro lavoro.
E’ stato Bateson a suggerirci il metodo del confronto in cui si combinano informazioni di genere diverso, provenienti da sorgenti differenti, per acquisire profondità di campo. E’ stato Bateson a parlare di mente/cervello cibernetico, della necessità che più menti, più teste si uniscano e affianchino ciascuna con le proprie semplificazioni, al fine di raggiungere la complessità, intesa come emergenza a seguito dell’unione di più semplificazioni. Bateson ha messo le basi per ragionare in termini di contesti di apprendimento, in cui avviene un processo interattivo, una danza di parti interagenti per cui l’unità evolutiva non è più l’individuo (paziente, alunno, operatore, soggetto sociale) ma l’organizzazione nel suo ambiente. Learning organization, contesti di apprendimento, è infatti una metafora sistemica per descrivere un contesto in cui si condivide un punto di vista comune ai partecipanti di quel contesto; si condividono cioè 1- le premesse, 2- alcune pratiche per conversazioni e azioni, 3- la capacità di considerare e operare sul flusso di vita come sistema.
Si tratta della proposta di un passo ulteriore oltre l’attenzione al rapporto tra paziente e clinico e tra allievo e insegnante per coinvolgere il gruppo più vasto che li include e studiare i processi che il gruppo stesso mette in moto.
Se fino ad ora abbiamo ritenuto una prassi corrente, rispettosa della complessità, combinare le informazioni che derivano dall’analisi dei processi con quelle che derivano dalle interazioni che emergono dai processi, attualmente non sembra sufficiente una analisi multipla dei dati; non sembra neppure sufficiente che un operatore unico si occupi di situazioni cliniche ad alta complessità sociale. Le patologie psichiatriche sempre meno possono venire gestite da un unico personaggio dietro ad una scrivania di un contesto privato. La psicoterapia può benissimo costituire un utile, a volte indispensabile, intervento rispetto ad un progetto integrato che venga gestito da una équipe coordinata e organizzata a quello scopo. Di fronte a situazioni cliniche e sociali complesse (oltre che complicate) sembra importante la presenza di più figure di riferimento, di più professionalità oltre che di varie personalità umane, ciascuna con le proprie competenze, i propri pregiudizi e le proprie mansioni, che ragionino e intervengano assieme e in maniera coordinata all’interno di un contesto che diventi contenitore delle situazioni stesse. Sto proponendo un modello processuale, che si occupa degli elementi evolutivi, un modello clinico basato sui vincoli e le possibilità (che tenga quindi anche conto delle risorse e delle capacità anziché unicamente orientato ai problemi), un modello attento alla psicologia di rete, alla psicologia di collegamento e alla collaborazione tra figure professionali. Solo la complessità dei contesti pubblici permette infatti di avvicinarsi alla complessità delle situazioni estreme (migranti, barboni, situazioni psichiatriche gravi, abusi) e la complessità dei servizi è data dalla integrazione tra le diverse figure professionali che vi lavorano, dai ruoli differenti, dalle più professionalità, dalle diverse lenti per leggere ciò che viene portato e dalla storia nel tempo delle interazioni tra persone. La costituzione di uno spazio fra (pazienti, studenti, operatori, parenti, nuove conoscenze…) e di uno spazio fra valori e idee, vecchie e nuove convinzioni sulle quali diventa indispensabile riflettere, rispetto ai quali diventa indispensabile stare.
Diventa a questo proposito interessante domandarsi come un servizio, un gruppo, possano costituirsi come una learning organization. Perché questo avvenga sembra necessaria la disponibilità: 1-a riconoscersi come gruppo, 2- a lavorare insieme per conoscere le premesse di ciascuno e negoziare quelle del gruppo in toto, 3- a fidarsi reciprocamente uno dell’altro, esplicitando e salvaguardando le proprie differenze, 4- ad abbandonare una visione burocratica e gerarchica dei ruoli per condividere una progettualità; 5- a coinvolgere, a volte, un osservatore esterno (supervisore) che raccolga la storia del gruppo e funga da contenitore e da stimolo del lavoro collettivo. Si tratta altresì (6) di superare l’impermeabilità operativa tra i diversi spazi/servizi: proporre momenti di incontro, stimolare una riflessione sull’integrazione dei percorsi, istituire una ‘figura di collegamento’ che favorisca il dialogo tra servizi che operano in maniera diversa. Per fare questo è necessaria (7) una maggiore coerenza/trasparenza nelle procedure dei servizi stessi; (8) l’introduzione del tempo: uscire cioè da una staticità ripetitiva per cui le procedure rimangono identiche nel tempo; è necessaria anche (9) una attenta analisi delle collusioni tra richieste dell’utenza, definizioni culturali dei problemi e risposte del gruppo di lavoro. E’ necessario infine (10) un atteggiamento irriverente (Cecchin) verso tutto quello che avviene. Si tratta diun atteggiamento che protegge dalla dipendenza verso qualcosa, della possibilità di ribellarsi alle proprie idee, ai propri miti e credenze che potrebbero inchiodarci in qualche gioco ‘pesante’, con tanta sofferenza e apparentemente senza via d’uscita. L’irriverenza si manifesta verso le proprie idee, non quelle degli altri.
Il vantaggio risulta la messa in comune, la complessificazione dei processi operativi e di pensiero che può portare ad apprendimento e crescita. La condizione necessaria e non sufficiente perché si costituisca un vero e proprio gruppo di lavoro (Bion 1962) diventa che l’équipe stessa funzioni come contenitore è che cambi l’oggetto di intervento, dall’utente al rapporto tra utente e gruppo; che si sposti il focus dell’attenzione dalle singole figure professionali alla relazione tra queste, considerandole coinvolte tutte in un processo co-evolutivo.
Un gruppo di lavoro didattico, una sala operatoria, un pronto soccorso, una unità di intervento psichiatrico, un servizio per l’alcolismo o per i disturbi alimentari ma anche una seduta di psicoterapia, possono venire organizzati da una complessa articolazione di strategie operative che possono diventare strumenti finalizzati all’evoluzione e all’apprendimento dei singoli componenti e del gruppo in toto. Questo a patto che siano coordinati tra loro, che acquistino cioè significato nella loro relazionalità e che siano organizzati attraverso un processo stocastico di tentativi ed errori (e di conseguente correzione degli errori).
Ho descritto il possibile passaggio dall’équipe come sommatoria (movimento che è avvenuto nelle strutture pubbliche italiane intorno agli anni ottanta, con la rottura di una monocultura psichiatrica nel territorio a favore dell’apertura ad altre figure professionali e che ha dato origine ad una interazione e partecipazione alla costruzione di una storia evolutiva condivisa) al gruppo di lavoro tematico come polo di aggregazione. Ho accennato alla possibile formazione di una identità nuova e specifica che emerga dal gruppo riunito attorno ad un progetto. All’interno di un gruppo strutturato infatti le persone sono in rapporto reciproco stretto: il comportamento, le idee di ciascuno costituiscono informazione per gli altri, ciascun partecipante introduce informazioni che producono la possibilità di nuove connessioni e nuove idee. La progettualità comune di una équipe permette di costruire un codice concettuale e linguistico condiviso, con procedure in comune ed obiettivi espliciti negoziati assieme e coordinati tra le diverse figure. La costruzione di un setting operativo condiviso, di un minimo comune denominatore nell’affrontare i vincoli e le possibilità del contesto.
Per finire…
La saggezza sistemica e Bateson stesso includono il dominio dell’estetica nella prassi della conoscenza e affrontano la conoscenza stessa come processo che ha le sue radici in un sentimento del mondo. Per questo ogni volta che leggiamo Bateson vi troviamo cose diverse, per questo ogni volta che cerchiamo in Bateson uno spunto per una nostra idea lo troviamo. Forse è stato proprio questo anche il modo di procedere di Bateson stesso, come ci evidenzia l’autore attraverso la citazione di T.S.Eliot che compare nell’Ultima conferenza: “Il fine di tutta la nostra conoscenza è quello di arrivare là dove siamo partiti e di conoscere quel luogo per la prima volta.” Non mi rimane che augurare al lettore una nuova lettura di Bateson, un buon ri-inizio, tante volte!
Bibliografia
Bateson G., 19 , Ultima conferenza
Bianciardi M., 2010, Evoluzione del pensiero sistemico e pratica clinica.
Bion W.R., 1962, Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma 1972.
Cecchin G.,
Telfener U., Casadio L., 2003, Sistemica, voci e percorsi epistemologici, Bollati Boringhieri, Torino.
[1] Mi sarei invece dovuta ricordare una sua importante massima: “Un essere umano in relazione con un altro ha ben poche possibilità di controllare ciò che accade nella relazione. E’ parte di una unità composta e il controllo che ogni parte può esercitare sull’intero è fortemente limitato.”(Bateson: Che cos’è l’uomo)
[2] Mi viene in mente la metafora che Bateson utilizzava spesso: ho una collezione di conchiglie, sono sparse su tutte le spiagge del mondo. Mi sembra che possiamo utilizzare le sue ‘conchiglie’ non per isolare ma per connettere pensieri ed idee, discipline e ambiti professionali.
[3] Un esempio di occasione perduta è il famoso libro Pragmatica della comunicazione umana, direttamente ispirato a Bateson, che propone una bibliografia molto interessante e ancora attuale ma trivializza le idee sistemiche rimanendo ancorata ad una cornice behaviorista.