In memoria di Ernst von Glasersfeld (U.T.)

E’ stato Heinz von Foerster a presentarmi Ernst. Eravamo a St Gallen in Svizzera, era il 1987, ad un convegno con altri epistemologi famosi quali Gordon Pask e Herbert Brun. Quanto Heinz era estroverso, scattante e necessitava di condividere la sua energia con gli altri, tanto Ernst era silenzioso e centrato, attento e introverso. Un uomo elegante, con un italiano fluente e curato e tante storie da raccontare rispetto ai suoi esperimenti con l’apprendimento, il linguaggio, le scimmie e i computer, e ancor prima, i racconti del suo periodo italiano durante la guerra, sul lago di Garda, il suo incontro con Silvio Ceccato, il famoso cibernetico, e la loro affiliazione.

L’episodio che voglio narrare è un particolare che resta nel mio cuore: Ernst mi aveva telefonato che passava per Roma. Lo vado a prendere all’aeroporto e prima di mangiare insieme decidiamo di andare al suo museo preferito, il museo archeologico di Roma, portando con me mio figlio, di allora ventiquattro mesi (circa). Il giro per le stanze, i suoi ricordi connessi alle opere e alla storia etrusca e una sosta nel giardino vicino ad una fontana tonda con alcuni pesci rossi. “Mi dai un po’ di tempo? Esploriamo la conoscenza?” In ginocchio vicino a Nic in passeggino, Ernst inizia le sue esplorazioni piagettiane.

Sperimenta la costruzione mentale dei concetti. Una foglia servirà per saggiare “lo stare a galla” (foglia con sassolino affonda, libera galleggia), e così via. Mi ha parlato dell’intelaiatura di base che i bambini costruiscono e delle strutture mentali per costruire costrutti quali oggetto, spazio, tempo… Reti per costruire una realtà esperienziale coerente, per organizzare una costruzione che non è illimitata ma organizzata sull’intelaiatura precedente. Probabilmente era abituato a fare quello che stava facendo, dato il suo lavoro con Leslie Steffe: una ricerca educativa che mirava a stabilire un modello ‘viable (fattibile/coerente)’ delle attività costruttive. Ho avuto la sensazione che mio figlio fosse affascinato da un adulto che anziché dirgli cosa dovesse fare e guidarlo, lo coinvolgeva e lo lasciava sperimentare: non tentava di trasferire le proprie idee, attendeva che emergesse il mondo da come lo esperiva Nic, lo aiutava ma non dava mai istruzioni. Io ero affascinata dalla possibilità di usare cose molto piccole e quotidiane  per parlare di conoscenza ed esplicitarne la costruzione.

Il gioco era esplicito, stava spiegando il figlio alla madre. Vedevo il costruttivismo all’opera, non come una congettura metaforica ma come uno strumento concettuale da utilizzare per approfondire la conoscenza della conoscenza. Ho compreso in quell’occasione cosa significasse conoscenza come funzione biologica. Inutile dire che questa piccola esperienza ha creato un forte legame tra noi e che la sua perdita è un dolore per me e per la comunità scientifica tutta.

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