La cornice etica
Il mio scritto si dividerà in due parti. Comincerò esplicitando un punto di vista sull’etica e, come riferimento teorico rispetto a questo tema, scelgo arbitrariamente Heinz von Foerster; costruirò pertanto la cornice entro la quale parlare di clinica in maniera che l’etica venga rispettata senza cadere nell’“io devo-tu devi”.
La cibernetica di secondo ordine rappresenta un cambiamento fondamentale non solo nel modo di praticare la scienza ma anche rispetto a come percepiamo l’insegnamento, l’apprendimento, il processo terapeutico, il management, a come percepiamo le relazioni nella vita quotidiana e a come ci poniamo rispetto al mondo. Do per scontato che il lettore abbia familiarità con questa chiave di lettura, con questo habitus epistemico, che è una mia scelta soggettiva, impossibile da imporre. Se in precedenza un osservatore indipendente osservava il mondo (oggettivo) dal luogo di osservazione scelto, oggi un attore partecipante al dramma delle reciproche interazioni – del dare e prendere nella circolarità delle relazioni umane – è obbligato a scegliere cosa considerare figura e cosa sfondo. Sarò pertanto responsabile delle mie scelte, nella consapevolezza che sono per principio indecidibili e indeterminabili.
Nel 1990 l’epistemologo Heinz von Foerster, colui che ha più stimolato noi sistemici su questo argomento, e che considero il mio maestro, viene invitato a Parigi a un convegno di terapeuti sistemici sull’etica della cura. Apre la sua relazione ringraziando gli organizzatori, poi, appena ha agganciato la platea nel suo modo abituale, fa presene
l’“ingenuità” degli organizzatori per aver proposto un titolo secondo lui outrageous, incredibile: per averlo invitato a “parlare di etica”. Racconta che in America gli chiedevano di cosa andasse a parlare a Parigi. “Di etica e cibernetica di secondo ordine”, rispondeva immancabilmente, e tutti a quel punto gli chiedevano cosa fosse la cibernetica, come se
sapessero esattamente cos’è l’etica. “Che sollievo questa domanda – dichiara alla platea del convegno – è facile parlare di cibernetica, ma è impossibile parlare di etica!” Nel suo intervento, dopo aver disquisito sulla cibernetica di secondo ordine, von Foerster dice che ora viene la parte difficile, riflettere sull’etica. Come farlo? Da dove cominciare? Introduce Wittgenstein, per lui “zio Ludwig”, e cita due proposizioni del Tractatus, che vorrebbe ribattezzare “Trattato etico-filosofico”. L’enunciato 6.421 dice: “È chiaro che l’etica non può essere articolata, non può avere a che fare con premi e punizioni.” Dimostra che le persone non rappresentano l’etica ma piuttosto la incorporano. Letto l’enunciato 6.422, prosegue: ”Quando una legge etica viene codificata nella forma ‘dovresti…’, il primo pensiero è ‘cosa succede se non la rispetto?’ È tuttavia chiaro che l’etica non ha niente a che fare con punizioni e ricompense nel senso usuale del termine. Purtuttavia, vi deve essere una qualche forma di ricompensa e punizione etica, ma queste si devono trovare nelle azioni stesse.”
Di etica non si può parlare senza scadere nel moralismo. Il problema diventa quello di essere capaci di far restare l’etica implicita, di agirla: la lingua e le azioni dovrebbero scorrere nel fiume sotterraneo dell’etica, in modo che il linguaggio non degeneri in moralizzazione. Come possiamo nascondere l’etica agli occhi di tutti e permetterle di determinare il nostro linguaggio e le nostre azioni? Fortunatamente l’etica ha due sorelle che le permettono di essere invisibile, in quanto creano un tessuto tangibile nel quale e sul quale possiamo tessere la trama della nostra vita. Le due sorelle sono la metafisica e la dialettica.
La metafisica è intesa come le scelte che ciascuno soggettivamente compie, cioè le lenti attraverso le quali il singolo sceglie e decide di osservare (“la necessità di scegliere rispetto a decisioni che sono per principio indecidibili”). Diventiamo metafisici ogni volta che affrontiamo e prendiamo decisioni su questioni indecidibili in linea di principio. “Se per esempio qualcuno si domanda se un numero qualsiasi (per esempio 24.356.865) è divisibile per 5, la risposta affermativa è già decisa dal sistema binario della matematica occidentale. Se qualcuno si domanda come si sia venuto a formare il mondo, nel rispondere si può scegliere quale teoria/ipotesi utilizzare. Solo su quelle questioni che sono indecidibili per principio possiamo decidere, non c’è nessuna necessità proveniente dall’esterno che ci forzi a rispondere in un modo o in un altro. Siamo liberi! L’opposto di necessità non è possibilità, l’opposto di necessità è ‘scelta’. Ma con questa libertà di scelta siamo ora responsabili di quello che scegliamo.” Nell’ottica della cibernetica di secondo ordine e del costruttivismo1, ci viene restituita la libertà di affrontare una situazione, e con essa ci viene
restituita la nostra responsabilità. L’etica diventa implicita, la responsabilità diventa esplicita; la libertà di scelta diventa un’opzione e, se la si assume, un regalo del cielo. A questo punto diventa importante riflettere sulle conseguenze operative, oltre che epistemologiche, di questa posizione. Il clinico costruttivista non può non occuparsi di valori, non può evitare di prendere una posizione “politica” e non può esimersi dall’assumersi la responsabilità delle sue azioni. Lavorando con la soggettività dell’altro e con la propria, con le idee e con le emozioni presenti nella relazione, non si limita più ad applicare delle tecniche sulle persone.
La prima decisione indecidibile è se faccio parte dell’universo o se ne sono apart, separato. “L’ontologia e, chiaramente, l’oggettività sono usate come uscite d’emergenza per coloro che desiderano oscurare la loro libertà di scelta e attraverso ciò sfuggire alla responsabilità delle loro decisioni – scrive von Foerster. – Separare l’osservatore da ciò che osserva lo libera dalla responsabilità di ciò che fa: viene così ridotto a un ruolo passivo (e oggettivo) di macchina, un semplice registratore del processo che ha luogo al suo interno e fuori di lui. L’invenzione dell’oggettività e delle gerarchie nelle organizzazioni ha permesso di non localizzare la responsabilità. Per alcuni la responsabilità è un peso intollerabile, mentre è più facile dire ‘tu devi’, ‘tu non devi’ e dare origine ai codici morali.”
Il secondo aspetto da prendere in considerazione per “agire” l’etica è la dialogica, intesa come lo scambio linguistico che impegna almeno due persone (“in un dialogo parlo con me attraverso te”). È l’uso che del linguaggio si fa per costruire la propria identità e per mantenerla nel tempo nel rapporto con l’altro; ma è anche la modalità con cui attraverso il dialogo si generano apprendimento e nuove cornici semantiche: “Le persone devono diventare poeti e lo diventano attraverso le domande che il clinico fa: è importante, per esempio, fare domande che l’individuo non aveva mai pensato in precedenza, in quanto offre la possibilità di uscire dai soliti copioni, di inventare nuove soluzioni.”
Il linguaggio, quindi, diventa un ambito in cui le persone acquisiscono un senso di sé, che viene costantemente “riaggiustato” nel rapporto con una comunità di osservatori: è costituito dai passi di danza della comunicazione, con o senza la musica (i contenuti), dalla sua dialogicità, dall’invito (e dalla necessità) a ballare insieme, dallo scambio che rende le persone, attraverso le domande, poeti e inventori. Affascinante la magia della lingua, la sua circolarità, l’invenzione che comporta! “L’accesso al linguaggio ha reso l’uomo libero di costruire ‘realtà’ immaginarie, virtuali, desiderate o sognate: il linguaggio inaugura la possibilità di narrare e ri-narrare a se stessi versioni sempre nuove e cangianti della propria esperienza” ci ricorda Marco Bianciardi (2010).
Le scelte che si compiono su questioni in linea di principio indecidibili e il dialogo che si mette in campo permettono di incarnare l’etica e di mantenerla come cornice sotterranea. L’etica diventa quell’ambito in cui siamo noi ad assumerci la responsabilità delle nostre decisioni. “Ogni volta che agisco nel ‘qui e ora’ – scrive ancora von Foerster – non solo cambio io, ma cambia anche l’universo. Questa posizione lega inscindibilmente il soggetto con le sue azioni a tutti gli altri, stabilisce quindi un prerequisito per fondare un’etica.” Nell’interdipendenza, il clinico potrà solo dire a se stesso come pensare e come agire; non potrà non restare coinvolto nelle scelte che le spiegazioni contengono, e non potrà non essere considerato responsabile di ciò che accade negli incontri, in quanto è socialmente definito come colui che ha un ruolo sociale, che deve aiutare, e che per questo viene retribuito.
Negli anni sessanta-settanta ci si preoccupava della competenza nell’applicare la metodologia nel processo stesso della seduta. Per esempio, erano considerate domande legittime quelle che proponevano di riflettere sulla lealtà verso i pazienti in terapia: che fare con le persone che non si presentano in seduta, come gestire i segreti, di cosa si può parlare di fronte ai bambini… Negli anni novanta il discorso sull’etica si è focalizzato sull’abuso del potere terapeutico, sull’attenzione alla relazione impari e alle possibili conseguenze nefaste di abusi (anche sessuali) in tal senso. Attualmente il discorso appare completamente mutato, e si focalizza sulla responsabilità e sulle scelte del clinico e su ciò che emerge nella relazione durante tutto il processo. Ci si occupa dei pattern che favoriscono o ostacolano la costruzione-creazione di significati condivisi e la creazione di una realtà evolutiva. Diventa imprescindibile chiedersi come far emergere una workable reality (una realtà terapeutica su cui sia possibile intervenire); come non diventare “dottor omeostata”; come non arrischiare il rischio del rischio iatrogeno; come non colludere con il sistema o con l’individuo; come lavorare senza imporre i propri valori.
Le operazioni cliniche
Se consideriamo plausibile la proposta di Heinz von Foerster di non vedere l’etica come una sovrastruttura ma come un atteggiamento nell’intersoggettività, ragionare di clinica significa ragionare di quale atteggiamento tenere nella relazione con l’altro (gli altri) che proprio a noi hanno chiesto aiuto. Non si tratta di acquisire nuove tecniche, di inventare nuove teorie per leggere i sistemi e i contesti, si tratta di riflettere sempre di più sulla nostra operatività e sulle azioni2 che già conosciamo-eseguiamo, al fine di costruire una prassi evolutiva condivisa e responsabile, e di conseguenza etica.
In una prospettiva costruttivista, il terapeuta non sa più o meglio del paziente: le sue teorie, le sue ipotesi, le sue narrazioni non sono né vere né false, sono plausibili esattamente quanto lo sono quelle del paziente. Ciò che le differenzia è piuttosto il fatto che le ipotesi del clinico devono porsi e mantenersi su un diverso ordine logico rispetto a quelle del paziente: non al livello dei contenuti di conoscenza, bensì a quello dei processi che costruiscono la conoscenza; non al livello (di primo ordine) del “conoscere”, bensì al livello (di secondo ordine) del “conoscere il conoscere”. Questa relazione implica una doppia posizione, come scrive Fruggeri (1997): “La prospettiva costruzionista comporta un’osservazione combinata, non tanto di informazioni e di dati diversi, ma piuttosto di due diversi tipi di dati o di informazioni, che appartengono a due livelli logici distinti e reciprocamente implicati, nessuno dei quali è, per così dire, detentore di un primato assoluto (…) Un metodo cioè che suggerisce di assumere, nell’analisi del processo di intervento, un punto di vista ‘binoculare’ che combini a) l’osservazione sull’utente e sulle sue relazioni significative, con b) l’osservazione sulla relazione che si stabilisce fra l’operatore e l’utente, da un lato, e i loro reciproci sistemi di appartenenza, dall’altro.” Il clinico non possiede teorie più vere né più oggettive, ma si pone su un altro piano: ha bisogno di una maggiore consapevolezza, una consapevolezza non di se stesso in solitudine quanto piuttosto delle operazioni che mette in atto nella relazione con l’altro.
Una costruzione diagnostica diviene così la capacità (l’arte?) di scegliere alcuni tra gli innumerevoli elementi che il paziente porta inscritti nella propria realtà, e di riconnetterli in visioni pregnanti e significative per l’individuo, valutando come quella scelta possa aprire o chiudere delle alternative. Sono queste “costruzioni soggettive” che rendono conto del fatto che, tra cento eventuali terapeuti, si instaurano infinite diverse possibilità di percorsi terapeutici, a partire da una stessa sintomatologia. La costruzione di più livelli di ipotesi costituisce un rituale di modificazione delle mappe cognitive, emotive, relazionali di tutti coloro che partecipano alla danza clinica, nonché del sistema di appartenenza delle persone implicate e conseguentemente dei rapporti intersoggettivi che mettono in piedi.
Il terapeuta fa costantemente una serie di scelte basate su alcune operazioni che deve necessariamente compiere. Queste operazioni emergono dalla consapevolezza:
– di essere parte dei processi costitutivi della realtà clinica che coinvolge non solo lui e il paziente ma anche gli altri significativi;
– di avere la responsabilità della costruzione del contesto terapeutico, affinché sia evolutivo e processuale (chi scegliere di vedere, quante volte, quando, dove, sottolineando quali tematiche);
– di non avere un potere unidirezionale sul gioco che emergerà, di far parte di una danza relazionale e condivisa, di limitarsi a fare delle proposte, essendo la danza comune a decidere il significato, attraverso le retroazioni;
– di agire attraverso parole e azioni al fine di intervenire sulle relazioni;
– di riflettere costantemente sulle azioni eseguite e sulle retroazioni ricevute, al fine di modificare se stesso e i propri comportamenti, qualora ce ne fosse bisogno;
– di riconoscere un’asimmetria di ruolo: parità umana e personale, trasparenza esperienziale, asimmetria nella responsabilità di ciò che accade nel contesto clinico.
Descriverei quindi l’intervento clinico come quella serie di azioni eseguite da un clinico a) responsabile delle sue azioni, b) consapevole della necessità di scegliere rispetto a decisioni che sono in linea di principio indecidibili, c) attento al proprio linguaggio e alle proprie azioni, d) che mette in atto operazioni sulle operazioni, e) che agisce su se stesso perché è incluso nel sistema, f) che aumenta il numero di scelte per sé e per gli altri, g) che considera ciascuno libero di agire verso il futuro che desidera (rispetto), h) che valorizza l’eterarchia computazionale 3 (valori, scelte che possono cambiare nel tempo e non sono organizzate in maniera razionale e logica).
L’aspetto primario diventa la necessità di assumersi la responsabilità delle parole e delle azioni nel processo in atto, la responsabilità delle operazioni che si propongono e del compito di modificare i comportamenti, in base a quello che emerge dalla danza. Cosa significa “responsabilità”? Etimologicamente, è l’abilità di rispondere alla situazione che dobbiamo fronteggiare (“che deve render ragione delle proprie o altrui azioni; consapevole delle conseguenze derivanti dalla propria condotta”, Cortellazzo, Dizionario etimologico, 1985).
Quali sono le responsabilità del clinico? Ogni clinico ha una responsabilità sociale determinata sia dal mandato da parte della comunità allargata che dal risultato delle proprie azioni nel mantenere-decostruire strutture di potere. Ha poi una responsabilità tecnica, che consiste nella capacità di considerarsi competente rispetto a un modello soggettivamente scelto; e una responsabilità relazionale che, considerando la relazione lo strumento primario del lavoro, lo induce a riflettere sul significato che le proprie azioni hanno (e hanno avuto) sul paziente e sugli altri significativi nel contesto condiviso. La capacità di includere se stessi nel processo di osservazione degli utenti: entrare in prima persona in rapporto con un altro soggetto al fine di porsi in una posizione di ascolto, di mostrarsi curiosi, di farsi perturbare dall’altro ma, ancora più importante, di mostrare la voglia-disponibilità-capacità di mettersi in gioco in prima persona rispetto alle categorie e alle azioni che si sono eseguite per intervenire. Poi, la disponibilità a mutare personalmente (cambiare le griglie di lettura, rivedere i pregiudizi ineludibili, fare azioni diverse) al fine di contribuire a costruire un contesto che sia evolutivo e processuale; la capacità di mantenersi aperti a esplorare e a mutare le proprie premesse, monitorando i propri pregiudizi, al fine di non cadere in pattern ripetitivi e/o collusivi (di queste competenze bene e spesso ci ha parlato Fruggeri, 1997, 2003).
Più semplice parlare di responsabilità della responsabilità, intesa come la capacità di essere consapevoli di agire i dominii della produzione (le azioni eseguite e riconosciute dalla comunità di appartenenza), delle spiegazioni (le storie di apprendimento costruite relazionalmente) e dell’estetica (l’eleganza morale ed etica con cui le prime due operazioni vengono portate avanti) (Lang, Liddle e Cronen 1990), processi dei quali ci si è assunti la responsabilità; si è cioè diventati responsabili delle singole responsabilità che ho citato. La responsabilità della responsabilità si riferisce al dover rendere conto, per primi a se stessi, del processo di costruzione di realtà sociali che si realizzano nell’interazione col problema presentato e il sistema di significati implicato. Non c’é bagaglio tecnico né modello epistemologico che possa di per sé dare una direzione evolutiva o stabilizzante all’intervento terapeutico: il significato di ciò che un clinico fa è negoziato attraverso un processo interattivo di cui tutti i partecipanti sono coautori.
Ci sono alcune azioni che rappresentano, secondo me, il cuore della responsabilità da parte del clinico:
-la riflessività e le operazioni sulle operazioni di secondo ordine;
-affrontare l’ignoranza e le zone cieche;
-tenere sempre presenti possibili esiti indesiderati (collusioni, risonanze, cronicità, rischio del rischio iatrogeno).
La riflessività e le operazioni sulle operazioni. Per recursività – un’operazione nata all’interno della logica matematica – si intende la capacità di computo attraverso la modalità di riflessione sulle proprie operazioni. In quest’ottica, si propone di introdurre l’osservatore nel dominio di osservazione, mentre Russell e Whitehead avevano bandito tale possibilità in quanto generatrice di paradossi. L’oggetto di osservazione consiste nell’atto stesso di osservare l’oggetto, ci ricorda Arnold Goudsmit (1989), e la riflessività è la capacità di usare se stessi per esplorare se stessi, di considerare qualcosa nel contesto di se stessi, di riportare l’operazione sull’operazione. Come spiegano bene Laura Fruggeri e Massimo Matteini (1988), non un clinico che osserva il cliente alla luce del suo modello di riferimento, ma un clinico che alla luce del suo modello di riferimento osserva se stesso nell’interazione con il cliente.
Le operazioni di secondo livello implicano la capacità di costruire una realtà condivisa all’interno di un contesto collaborativo e dialogico in cui sappiamo che quello che diciamo e facciamo può essere letto in maniera diversa dalle nostre intenzioni, e ci modifichiamo al fine di introdurre informazioni, rintracciando una coerenza. Questo atteggiamento ci porta a parlare di conoscenza della nostra conoscenza, diagnosi della diagnosi, cura della cura, responsabilità della responsabilità.
Un flash clinico ci illustra la mancanza di una posizione riflessiva.
Una psicologa in supervisione mi racconta un caso che sta seguendo. Un ragazzo con sintomi fobici, a seguito di tre mesi di lavoro terapeutico con lei decide, dopo molti anni di immobilità, di partire per un viaggio. Parte con una ragazza incontrata da poco e senza dirlo alla fidanzata, che è al mare con i genitori. La mia allieva definisce la ragazza con cui lui parte “la sua amante”. Che significato ha questa definizione? Non sta definendo anche lei, inconsapevolmente, una gerarchia tra le due donne? Se inavvertita, questa definizione può essere collusiva e può dar voce a un’idea tacita del ragazzo che questa donna sia “di serie B”; può altresì essere letta come una diminuzione di questa nuova donna da parte della psicologa, che sembra disapprovarla. Se il commento è invece fatto in maniera strategica, può assumere un significato completamente diverso.
Scrive Bianciardi (2010): “Ritengo che la necessità di una conoscenza di secondo ordine sia una caratteristica formale della relazione psicoterapeutica: una caratteristica formale e caratterizzante la quale può essere considerata indipendente dalle teorie, dai contenuti, dalle procedure dei differenti approcci e metodi clinici.” Ogni rapporto clinico, ogni modello clinico sembra imporci di assumere questa posizione.
Affrontare l’ignoranza e le zone cieche. L’atteggiamento epistemologico implica l’assunzione di più posizioni rispetto al sapere. Nello specifico, oltre alla consapevolezza di sapere di sapere (ciò che sappiamo di conoscere, riflessività e consapevolezza) e di sapere di non sapere (ciò che sappiamo di ignorare e che ci spinge a essere curiosi) atteggiamenti che ci conducono naturalmente verso il processo di ipotizzazione – siamo anche consapevoli di non sapere di sapere (ciò che emerge nell’intuito e che non è sotto il nostro controllo) e di non sapere di non sapere (le zone cieche a cui non possiamo sfuggire, punti ciechi inevitabili rispetto ai quali non possiamo che attendere le retroazioni, per poi cambiare per primi noi stessi). Se diamo ragione a von Foerster e alla sua ipotesi che abbiamo a che fare con inconoscibili e indeterminabili, diventa imprescindibile fare i conti con la nostra ignoranza e con gli imprevisti.
Come gestire l’ineludibile “ignoranza” di fronte alle situazioni? È utile, a mio parere, rendersi conto che possiamo avvicinarci unicamente alle situazioni così come si presentano a noi, senza aspettarci di conoscere “bene” o “meglio” un sistema. Dobbiamo accontentarci della nostra ignoranza ed espanderla ulteriormente: non tanto indagare per far emergere quello che non si sa, quanto andare in aree sconosciute, permettendo l’insorgenza di copioni nuovi, tollerando il dubbio e non pretendendo di tutto controllare. Abbandonare soluzioni deterministiche. Non domandare per sapere ma piuttosto domandare per perturbare, per far accadere qualcosa nel “qui e ora” del contesto terapeutico. Ce lo hanno ben detto i teorici costruttivisti, l’atteggiamento classico sul non sapere fa pensare di aver individuato il problema e di non conoscere la soluzione. Un’epistemologia cibernetica propone che a essere ignorata non sia solo la soluzione ma anche la portata dei problemi.
A mio parere, approfondire il modello sistemico implica accettare fino in fondo l’idea che siamo anche ignoranti: il nostro conoscere è sempre incompleto, provvisorio, autoreferenziale, il nostro “sapere” comporta un’ignoranza costitutiva e ineliminabile che non è sotto la nostra giurisdizione. L’osservazione implica comunque un punto cieco, come ben dimostrava Heinz von Foerster, praticamente, nei suoi seminari. Non possiamo quindi fare affidamento su una pianificazione top-down né basarci solamente su ciò che sappiamo: la nostra comprensione degli eventi è incompleta, e va bene così, in quanto proprio questa incompletezza ci permette di fidarci del nostro intuito, di avventurarci in aree sconosciute, di affiancare tecnicismo e creatività, di allontanarci da un percorso ripetibile e banale, sempre uguale. Mi sto riferendo alla necessità che il clinico, abbandonando il mito del controllo, si accontenti di un sapere provvisorio e si adoperi per non comprendere troppo presto e non saturare la conoscenza del sistema. Che si fidi anche delle capacità di autoguarigione del sistema.
Che cosa determina considerarsi anche ciechi, oltre alla libertà di fidarsi dell’intuito, di star bene in situazioni che non sono sotto il nostro controllo e di fidarsi degli altri, permettendo loro di esplorare?
– Rinunciare alla propria expertise;
– rinunciare all’idea di conoscere il sistema;
– tollerare l’ansia di rimanere in territori sconosciuti;
– creare una workable reality, far accadere i processi durante la seduta;
– rinunciare a controllare il sistema osservante;
– acquisire un atteggiamento di ricerca attiva (che ha sostituito per me il concetto di curare);
– monitorare costantemente la possibilità di entrare in risonanza;
– ………………………………………………………………
Tenere sempre presenti possibili esiti indesiderati. Qui ha inizio la parte di questo scritto a cui tengo di più, quella su cui focalizzo con insistenza, in quanto considero questo argomento uno dei più importanti del nostro agire etico, spesso dato per scontato o trascurato.
Sistema non è ciò che esiste in una realtà fuori di noi, ma è un’ecologia di idee che emerge da ciò che contribuiamo a far emergere insieme con i nostri utenti e con gli altri significativi, che possono essere medici, altri operatori, parenti e amici degli utenti e nostri colleghi e supervisori, che tutti insieme determinano significati e azioni e ne vengono determinati. Nel caso di un percorso terapeutico, non è solo ciò che viene scelto dal terapeuta come “terapeutico” ad avere degli effetti “terapeutici”, ma anche ciò che può risultare di contorno o del tutto inutile, ciò che si è fatto ma anche le strade non intraprese. I terapeuti, attraverso un’attenta strategizzazione, si impegnano a raggiungere un obiettivo terapeutico. Il nostro focus è il “pattern che connette” il sistema consulente al sistema committente, attraverso un processo che mette in atto spinte sia verso la stabilità che verso l’evoluzione. Il cambiamento emerge da una coordinazione di una coordinazione tra persone, all’interno di uno spazio di discorso condiviso. Le parole e le azioni che facciamo e che non facciamo costruiscono la danza interattiva e possono portare o non portare gli effetti desiderati, proprio in virtù del fatto che, in un processo di cocostruzione, non è solo il terapeuta a determinare gli effetti di ciò che accade, ma sarà anche e soprattutto l’altro ad attribuire un “senso” a ciò che viene espresso, retroagendo sulla base di questo “senso” attribuito (Fruggeri, 1999). I successi e i fallimenti non dipendono unilateralmente dal clinico o dal sistema che chiede aiuto, ma emergono all’interno della storia della relazione e del loro reciproco incontro. Emergono dalla coordinazione della coordinazione di azioni e significati. Non ci sono procedure oggettive in psicoterapia, e quello che sarà chiaro e autoevidente alla fine di una terapia – sostiene Goudsmit (1989) – non è prevedibile prima dell’incontro psicoterapeutico.
Alla luce di quanto affermato, o ci si arrende, disperando di poter sapere dove si deve andare, o si considera terapeutico il semplice entrare in un sistema (come aveva supposto il costruzionismo sociale in una prima fase; si veda Anderson e Goolishian, 1988), o ci si pone nella posizione di intendere il colloquio terapeutico come un continuo e costante intervento di secondo ordine, durante il quale il terapeuta si interroga costantemente su quanto sta accadendo, sia a livello delle proprie premesse generali, sia a livello delle azioni terapeutiche concrete (ad esempio la scelta di una domanda più che di un’altra, di un tema, di un percorso). Secondo quest’ultima proposta, si effettua una continua valutazione degli effetti delle azioni passate e in corso, per costruire nuovi piani d’azione, per anticipare le conseguenze di varie alternative, e per decidere come procedere in ogni particolare momento, ma ci si lascia anche trasportare dalla corrente e ci si fida del processo e della relazione che si è stabilita, al fine di massimizzare l’utilità terapeutica.
I comportamenti del clinico non hanno un effetto costruttivo di per sé, né in positivo (evoluzione) né in negativo (patologia). Hanno effetti all’interno delle definizioni o rappresentazioni condivise sul piano relazionale e sociale. Gli esiti degli interventi emergono cioè da un gioco interattivo in cui il clinico non è il solo soggetto attivo e in cui, peraltro, le rappresentazioni sociali che informano i comportamenti non hanno per oggetto soltanto la figura del terapeuta. Le conseguenze non volute sono l’esito di un’azione congiunta, non riferibile ai singoli individui, ma non sono neanche causate da fattori esterni. I partecipanti all’interazione hanno un ruolo attivo nel formare il percorso dell’azione congiunta, ma il percorso stesso è contingente, processuale e storico.
Quali sono gli esiti indesiderati?
Non certo gli errori, che all’interno della cornice cibernetica sono segnali che possono aiutare il clinico a correggere la sua strategia (si espletano nel dominio dei comportamenti, e sono dei segni). È impossibile, anzi è errato proporsi di non fare errori: la possibilità dell’errore non si distingue dalla possibilità stessa della conoscenza. Si fanno errori rispetto a una determinata teoria che sola può dirci che cosa considerare come rilevante o meno, che cosa perseguire o evitare, che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. La base per l’autocorrezione cibernetica deriva dalla possibilità di generare errori e differenze che permettono di modificare i propri comportamenti (Keeney, 1985; Telfener, 1985). Neppure l’impasse può considerarsi un effetto indesiderato, in quanto è inevitabile, è una situazione difficile in cui ci si viene a trovare quasi all’improvviso e a volte inspiegabilmente: un punto di biforcazione che non avevamo previsto e che ci obbliga a prendere una via alternativa. È usualmente il risultato della storia di quella terapia, dell’incontro tra paziente, clinico, modello di intervento, contesto e narrazioni emerse; si dipana nel tempo e nello spazio segnalando la necessità di ripensare al proprio operato, e può dare origine a momenti evolutivi importanti. È difficile anche considerare gli insuccessi come eventi indesiderati. Quello che può essere un successo per un membro del sistema terapeutico, può essere letto come insuccesso da un altro membro. Non ci sono quindi insuccessi oggettivi, ma solo insuccessi riferiti a un particolare punto di vista (Telfener, 1996). Così i dropout (abbandono della terapia non contrattato che avviene di solito entro le prime sedute), vere e proprie fughe, più o meno inspiegate, che possono risultare terapeutiche, quando con la sola perturbazione iniziale la situazione evolve, oppure non terapeutiche, quando le cose rimangono uguali o peggiorano. Anche la risonanza è inevitabile. Si tratta delle reazioni emotive, spesso inconsapevoli, a situazioni, eventi, traumi affettivi emersi dalle storie degli utenti, che richiamano aspetti personali non elaborati nella storia personale del clinico, fatti o emozioni che non prende in considerazione e che lo rendono cieco. Entrare in risonanza significa non accorgersi di alcuni eventi, essere ciechi ai propri stati d’animo rispetto a quegli eventi e non cogliere le stesse sfumature che colgono gli altri. (Il rischio della risonanza viene risolto attraverso il lavoro del team, la super/pari-visione, la riflessione comune.)
Fanno parte invece degli unintended events quelle situazioni che accadono e ci prendono la mano: un momento in cui ci troviamo paralizzati perché troppo invischiati, perché abbiamo perso la nostra autonomia e pensiamo come pensa il sistema che ha chiesto aiuto, quando non vediamo alternative al pattern usuale di comportamento, quando abbiamo perso la nostra curiosità o costruito una situazione immutabile; quando si è persa la processualità, intesa come la possibilità di andare avanti, di svolgere ciò che accade come se fosse un nastro.
La collusione è la spinta a stare al gioco dell’altro, l’aver accettato il suo punto di vista e trovarsi invischiati in un gioco che non è evolutivo:
si perde lo sguardo individuale a favore di quello collettivo;
si vedono solo alcuni aspetti;
si fotografa la realtà, la si blocca;
si perde la spinta strategica;
si mettono in campo pensieri/azioni che invece di far evolvere la situazione reificano lo status quo.
La collusione accade quando a) si cade nella patologia, non la si vede in maniera evolutiva; b) si cade negli interventi ortopedici; c) ci si occupa solo del sistema osservato; d) si perde la dimensione temporale e contestuale; e) si mantiene una relazione di potere; f) si cade nei protocolli, perdendo la curiosità; g) si ridefinisce positivamente a tutti i costi, senza “com-prendere”; h) si aderisce eccessivamente alle indicazioni del modello teorico; i) si “comprano” le ipotesi del sistema; l) si cade in una logica dell’emergenza; m) si salta l’analisi della domanda o si offre terapia nelle situazioni in cui non c’è una domanda esplicitata; n) si cade nella normatività; o) non si è consapevoli delle mappe utilizzate per leggere le situazioni, e quindi non si è disponibili a metterle in discussione.
Si ha cronicità quando una mappa di patologia viene condivisa da tutti i componenti della rete relazionale che comprende il cliente, i familiari, i curanti, gli invianti: quando tutti sono d’accordo e non c’è più nessuno scambio di informazioni.
Il rischio del rischio iatrogeno (iatreia = “cura medica”; gignomai = “nascere”) è l’altra conseguenza inattesa che emerge dai processi interattivi (anche quando il modello viene applicato correttamente) e deriva dalla pratica della cura, indicando situazioni in cui si ipotizza che il peggioramento non sia dovuto alla personalità delle persone in cura ma sopravvenga a seguito delle operazioni del curante. Se pensiamo che gli umani e le situazioni sono in costante divenire, il ruolo dell’operatore diventa quello di non bloccare il cambiamento. Non dobbiamo spingere verso una nuova organizzazione, ma dobbiamo stare attenti a come gli interventi che proponiamo possono fermare-staticizzare una situazione oppure renderla evolutiva. I sintomi più frequenti in questi casi sono un aumento dell’ansia, senso di sgretolamento di sé, senso di trasparenza, pensieri di incapacità e inadeguatezza. Il rischio non è quindi che il terapeuta ignori qualcosa dell’oggetto di conoscenza (questo è inevitabile e salutare), il rischio è che ignori qualcosa di sé, ovvero ignori le caratteristiche costitutive di potenzialità e di riduttività dei propri percorsi e delle proprie modalità conoscitive in rapporto a quelle dei clienti. Che ignori la propria ignoranza. Questo confondere i propri mezzi conoscitivi con la realtà è la radice di ogni possibile rischio di un danno iatrogeno.
Direi che il rischio iatrogeno può essere messo in relazione a due fattori: un’epistemologia implicita secondo la quale l’osservatore è separato dall’osservato, e una teoria che prevede e descrive tappe normative che una persona dovrebbe superare per arrivare alla sanità o alla maturità.
Riconoscere il rischio di poter diventare “dottor omeostata”, di avere ineluttabilmente dei punti ciechi, di non sapere di non sapere, di poter colludere col sistema, porta a operare “senza memoria e senza desiderio” e a non porsi lo scopo di attuare una correzione morale, né una riabilitazione psicologico-normativa.
Un flash clinico:
Maria è una donna di trentacinque anni con un figlio appena nato. È stato fatto nascere anticipatamente perché lei era molto agitata, insonne e con idee di riferimento. Mi contatta quando il figlio ha venti giorni, e viene convocata col marito. Si mostra confusa, eccessivamente accomodante verso di lui, poco esplicita circa i suoi timori. Dice quello che il marito vorrebbe sentirle dire, dà tutto il potere a lui e non sembra rendersi conto del nuovo nato, che ha affidato a una badante e che definisce “un peso”. La seconda volta viene convocata insieme al marito e ai genitori, e il suo comportamento appare molto diverso. Sembra presa in mezzo tra due alleanze, propende esplicitamente per le opinioni dei genitori, tende ad accondiscendere, trascurando, almeno apparentemente, il marito. In entrambe le situazioni non ha un suo punto di vista e appare molto sospettosa; continua a non trattare il tema della nuova maternità. Come intervenire per prendere in carico la coppia, per costruire attorno a loro un confine, per ridare competenza a entrambi, per recuperare le loro risorse? Come non cadere nella trappola di “criticare” la donna, che trascura il figlio in maniera evidente?
Quando la coppia viene inviata all’ospedale pubblico di riferimento per “farsi aiutare con i farmaci per la sua sospettosità”, su indicazione del clinico e previo colloquio tra i curanti dei due setting (terapeutico e ospedaliero), non incontra lo psichiatra di cui ha il nominativo (è in malattia) ma un altro, che dopo il primo colloquio dichiara la propria intenzione di incontrarsi con il padre e il marito, per esplicitare la situazione e la diagnosi, escludendola dal processo.
1. L’intenzione di vedere padre e marito, tenendo fuori lei e la madre, collude con l’importanza che le due donne danno agli uomini e con la loro impotenza manifesta; 2. si rischia di squalificare ancora di più la donna, che già delega se stessa agli altri; 3. l’intenzione dello psichiatra di dichiarare la diagnosi di “psicosi” potrebbe bloccare la situazione, definirla attraverso un’etichetta che tenderà a rimanere indelebile nel tempo; 4. essendo il padre della ragazza (medico) in lite col marito di lei (operaio) e avendo la famiglia di lei sempre protetto la figlia da ogni responsabilità, si rischia che la diagnosi offra ai genitori una buona scusa per farsi carico nuovamente di Maria e del nipote, abbandonando il marito al suo destino.
Lo psichiatra sembra avere una visione lineare e causale della malattia, in accordo con il suo training formativo, un’idea oggettiva dei sintomi, che possono essere monitorati e controllati attraverso i farmaci (intervento istruttivo) e la presa in carico della paziente da parte degli addetti ai lavori. Diventa pertanto necessario che lo psicoterapeuta contratti con lo psichiatra una condotta che non reifichi il problema e offra a marito e moglie una spiegazione evolutiva dei sintomi e della situazione.
Più passa il tempo, più faccio supervisione in contesti diversi, più mi accorgo che clinici anche ben formati non prendono tempo per riflettere sulla loro partecipazione a quello che succede nel processo e non prestano sufficiente attenzione alla rete che emerge attorno a ogni singolo caso. Partecipano così a un processo che diventa sempre meno
evolutivo, e in questo modo perdono la possibilità di rispettare le esigenze etiche del processo denominato “intervento clinico” o “psicoterapia”.
Conclusioni
Potremmo chiamare “relazionale” questo atteggiamento verso l’etica, e aggiungere che esso esclude totalmente la possibilità di chiamarsi fuori, di fare una diagnosi da un luogo privilegiato di osservazione senza occuparsi delle conseguenze delle proprie azioni (come abbiamo visto nell’esempio, il rischio di fare una diagnosi e comunicarla a una sola parte del sistema). Spero che si sia compreso che la mia proposta è quella di considerarsi ineludibilmente parte del processo, osservare le retroazioni, e se non ci piace ciò che è emerso, mutare il nostro atteggiamento, il nostro modo di essere con l’altro/con gli altri.
“Ne consegue che lo psicoterapeuta deve sapersi e riconoscersi non solo responsabile nel senso classico secondo cui ogni professionista è responsabile della corretta applicazione del proprio metodo e delle tecniche che tale metodo prevede. Lo psicoterapeuta deve anche, e soprattutto, sapersi responsabile come persona, e responsabile in prima persona, di quanto avviene nell’incontro con l’altro e dell’esito che tale incontro avrà. Lo psicoterapeuta è in ogni caso responsabile di come la relazione si definisce ed evolve nel tempo; e, d’altra parte, le caratteristiche specifiche della relazione psicoterapeutica comportano che il buon esito del ‘trattamento’ non possa essere garantito dalle teorie e/o dalle tecniche, né dalla loro corretta applicazione. Per questo, in quanto psicoterapeuta, lo psicoterapeuta è responsabile in prima persona” (Bianciardi, 2010). La responsabilità del terapeuta diventa una responsabilità soggettiva e personale, ed è in questo senso che la psicoterapia deve essere intesa come pratica “etica”.
Un’ultima riflessione: perché questo avvenga, il clinico deve poter passare dal potere al rispetto.
Forse la più importante accezione del termine “cambiamento” nell’ottica sistemica è proprio quella di “rispetto”. Se un terapeuta sistemico si avvicina alla persona come un professionista consapevole della dialettica caos/ordine, stabilità/cambiamento, disponibilità/ritrosia, questo equivale a nutrire un profondo rispetto sia per se stesso e per i propri pregiudizi/premesse, sia – e soprattutto – per la persona, con la sua richiesta di aiuto, i suoi “sintomi”, la sua storia e i suoi profondi legami con un bagaglio di pensieri e comportamenti che un senso adattativo hanno avuto e che, tra l’altro, potrebbero tornare nuovamente utili in futuro, proprio sotto quella stessa forma che, al momento dell’incontro con il terapeuta, crea invece disagio.
Ho parlato della possibilità di costruire una prassi processuale, evolutiva ed etica. Vorrei finire con un imperativo etico del mio maestro Heinz von Foerster che ha costituito per molti di noi uno stimolo alla libertà di pensiero e di azione, fondamentale nella prassi lavorativa:
“Agisci sempre in modo da aumentare il numero delle scelte tue e altrui.”
Note
1 Il costruttivismo è una concezione integrata dell’essere umano, considerato parte dell’universo e coinvolto nel processo di osservazione.
2 Tra le “azioni concrete” possiamo annoverare quegli interventi che si traducono nelle “parole” spese, nelle domande fatte nel corso della conversazione terapeutica, ma non solo: anche bere il tè insieme (oggetto transizionale) oppure, con i migranti, accompagnare il paziente da un dottore.
3 Heinz von Foerster considerava uno degli articoli più importanti degli anni sessanta quello di McCulloch (in von Foerster, 1974) sull’eterarchia computazionale. In esso l’autore dimostrava che le scelte non sono basate sulla logica ma sull’estro del momento, diversamente da come pensano i logici.
Riferimenti bibliografici
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