Lynn Hoffman, dialogo con una pioniera Umberta Telfener

Lynn Hoffman è una mia amica. L’ho conosciuta per la prima volta alla Philadelphia Child Guidance Clinic a metà degli anno ’70. Si vociferava che fosse innamorata di Jay Haley e per questo aveva collaborato con lui su un libro uscito nel 1967. Lui le aveva però preferito Cloe Madanes, peccato. La sono poi andata a trovare varie volte all’Akerman Institute di New York dove lavorava. All’epoca collaborava con Bradford Keeney e Peggy Papp e faceva interventi puntuali come un laser. Nel 1980 insieme a lei sono andata per la prima volta dietro lo specchio del gruppo di Milano. I quattro erano ancora insieme e abbiamo passato dei giorni molto intensi, ragionando sulla possibile teoria di una pratica assolutamente innovativa e brillante. Le conseguenze sono state molto interessanti per ambedue, io sono entrata nella scuola come allieva didatta, Lynn ha scritto un libro con Luigi Boscolo, Gianfranco  Cecchin e Peggy Penn (1987).
Ai primi di novembre di quest’anno c’è stato un congresso a Vancouver organizzato in suo onore e da lì l’ho intervistata per la nostra rivista. La consideriamo una pioniera sia per gli anni che ha passato nel campo della terapia familiare, sia per gli articoli teorici rigorosi e importanti che ha scritto in ambito sistemico, soprattutto nel periodo del cambiamento dal paradigma omeostatico a quello evolutivo (vedi l’articolo fondamentale per tutti noi, Beyond power and controll in cui racconta come in terapia sia necessario abbandonare sia il potere che il controllo al fine di dialogare in maniera trasparente).
Lynn è nata a Parigi negli anni ’20, dove ha vissuto in una colonia di artisti dove sua madre disegnava stoffe. Si è laureata a Radcliffe in letteratura inglese nel 1946, è poi entrata nel campo della terapia familiare facendo da editor ad un libro di Virginia Satir, che ha incontrato nel 1963 a Palo Alto. Si è così appassionata alle idee proposte che si è presa un diploma ed è diventata una voce autorevole del mondo sistemico. Ha lavorato con Virginia Satir poi con Haley; è poi diventata l’animatrice dei post milan teams, gruppi di pensatori sistemici con un comune training con Boscolo e Cecchin, che hanno poi formato equipe molto creative che esploravano ed esportavano la prassi sistemica in contesti diversi. Lei si è impegnata con ciascuno, impollinando ogni gruppo con le idee degli altri e tenendo le fila e i contatti. Non ha mai proposto uno stile di terapia suo proprio ma ha spiegato in maniera accurata quello dei colleghi e ha offerto  interessanti specifiche di teoria della tecnica, come il concetto dei cinque tempi terapeutici (il passato, il presente, il futuro, il tempo mitico e quello della prima crisi); il costrutto di “spigolo che emerge” cui ci si deve rivolgere inizialmente; di “finestra di apertura all’ascolto” degli individui che permette alle informazioni di passare. E’ passata dalla terapia paradossale a quella strategica per poi abbracciare la tecnica retorica del gruppo di Milano che permetteva di agire in maniera contro-paradossale. Ha scritto e praticato la terapia focalizzata sulle soluzioni di Steve de Shazer e Insoo Berg (1994), le teorie femministe (Gilligan 1982), si è fatta sensibilizzare dai concetti di cultura e razza (McGoldrick 1998), poi dalla terapia narrativa (Michael White 1995), dal reflecting team di Tom Andersen (1991) e dalle pratiche post-moderne (conversazionalismo, posizione del non sapere, ascolto “generoso”, responsabilità relazionale …).
La conosco come una persona curiosissima, che orecchia quello che succede nel mondo e lo trasferisce in ambito teorico, applicandolo alle famiglie e riuscendo a spiegare in maniera chiara e poetica concetti difficili da afferrare. Una donna alta, elegante, segaligna, ironica, sempre pronta a cambiare e a cercare nuovi stimoli, che ha passato tante fasi diverse.
“Ora sei affezionata alla metafora dei rizomi.”
“Devo questa metafora al lavoro con il collega Chris Kinman, canadese, molto coinvolto con i giovani della First Nation, i primi insediamenti canadesi. Deleuze e Guattari (1980) contrappongono la concezione rizomatica del pensiero a una concezione arborescente, tipica della filosofia tradizionale, che procede gerarchicamente e linearmente, seguendo rigide categorie binarie e dualistiche. E’ l’influenza di internet e della rete a livello mondiale che mi ha ispirato. Il web è un’immagine che permea tutto oggi giorno. La trovo molto interessante perché propone un passaggio da uno sguardo verticale ad uno orizzontale. Da Platone in poi il pensiero è stato verticale, le discipline sono state pensate come separate, la metafora principale del mondo occidentale propone l’inclusione/esclusione. Pensare in termini di rizoma significa per me far tremare le fondamenta del mondo e della cultura occidentale, le modalità di insegnamento e le pratiche esplicative. Significa rifiutare l’idea di gerarchia, sposare un’immagine di parti interconnesse e alla pari, orizzontali, per cui se cambia una cambiano tutte le altre, in cui non sappiamo mai il codice segreto per farle cambiare. La metafora del rizoma propone un paradigma indiziario che attraversa le discipline, piccoli ordini provvisori, ordini narrativi che proseguono per differenze e ripetizioni. Mi interessano gli assemblaggi di persone e di realtà che sono parti di un mondo naturale. Il modello rizomatico privilegia le singolarità, l’attenzione al linguaggio, il pensiero abduttivo, la de-territorializzazione (l’intenzione di abdicare ai confini), il lavoro clinico condotto sulle linee di transizione anziché sui temi “densi”. Penso alla conoscenza post moderna come una nuvola di elementi narrativi, come nuvole di socialità, assemblaggi – unità non connesse in maniera troppo stretta – che operano con estrema forza. Vedo la terapia familiare a rischio gerarchico per cui il terapeuta rimane l’esperto che indaga sugli altri. Per me la metafora del rizoma diventa un pattern diverso per spiegare la comunicazione, in quanto propone una prassi democratica, orizzontale, in cui non c’è un ceppo originario ma tanti arbusti, tante talee che danno i loro frutti. Ognuno può essere differente dagli altri, seppure la matrice sia comune.
Vorrei pensare ‘web work’ più che ‘network’ e mi piacerebbe ragionare in termini di costruire reti sostenibili che cambiano il contesto e le premesse. Resto affezionata a termini quali domande circolari, reflecting teams, open dialogue, visione condivisa (sharevision),  basate sull’idea di polifonia e dialogismo di Bakhtin (1975). Mi piace anche ‘pensare insieme’(withness thinking) più che pensare sui contenuti (aboutness thinking), secondo un’idea proposta da John Shotter (1997), che prima della morte di Tom Andersen lo affiancava nelle presentazioni.”
“Prima di “sposare” i rizomi hai illustrato e spiegato il modello di Milano.”
“Si. E’ stato molto interessante e molto istruttivo. Tornando indietro  gli incontri del gruppo di Milano avevano qualità rizomatiche fin dall’inizio. Non proponevano un modello statico ma erano più come i pop-ups dei libri dei bambini. I loro commenti, le associazioni che facevano costantemente permettevano di chiamarsi fuori e aggiungere qualcosa di nuovo. L’ethos degli incontri  evitava di bloccarsi e di ripetere prassi sempre uguali. Questo succedeva ai gruppi organizzati intorno ad un guru: erano tipici dell’epoca e richiedevano l’obbedienza. Luigi col suo amore per le storie e il suo stile di conversazione senza una gerarchia non si è mai comportato come un “superiore” e Cecchin era lui stesso un giullare di corte, al punto da rendere l’irriverenza parte del suo lavoro. L’aspetto non definitivo del lavoro clinico dei due pionieri, il rifiuto di sposare le proprie ipotesi, e gli interventi proposti – come le domande circolari – erano rizomatiche nel senso che erano sovversive e ancora stupiscono; non c’è nessuna finalità definita a priori, nessun obiettivo finale del lavoro. L’arte più ricercata dal gruppo sembrava essere quella di facilitare connessioni tra eventi, tra posti nel mondo e nella mente, tempi, persone. L’effetto combinato di questo connettere produce per ciascuno il proprio tipo di cambiamento. Mi viene in mente nel “nostro” libro, quello costruito a quattro mani, la famiglia che ha messo su un “negozio anoressico” che vendeva abbigliamento sportivo, in modo che l’anoressia non fosse più necessaria. Mi piace questa focalizzazione su possibili regali inaspettati che la vita fa, anziché la necessità di dover cambiare qualcuno. Per me è stato un sollievo passare dalla vecchia metafora dei sistemi disfunzionali a quella del rizoma. Abbiamo bisogno di ambedue le metafore ma la seconda evita ancora di più interventi lineari e finalizzati.
“Un’altra tua passione è quella di cercare un linguaggio differente per parlare di salute mentale.” “Sono stata influenzata dall’architetto Christopher Alexander che ha scritto un libro classico “Il modo di costruire senza tempo”. Lui propone un linguaggio che si rifà al folclore più che alla copia carbone del mondo. Chiamerebbe una casa una ‘grotta per bambini’ o chiamerebbe ‘muro assolato’ un giardino in cui cresce un pesco. Lui parla di una ‘qualità senza nome’ che caratterizza case, strade, villaggi in cui le persone si sentono istintivamente a proprio agio. Alexander ci propone molte parole che potrebbero definire questa sensazione. La sua scelta finale è stata per la parola ‘vitalità’ (aliveness). Credo che un nostro obiettivo dovrebbe essere quello di sostituire la parola ‘salute’ con ‘vitalità’ e di lavorare su quegli aspetti di cui gli individui e le famiglie sono fieri, le azioni da cui traggono soddisfazione e gioia.
“Il gift exchange, lo scambio dei doni, è un’altra tua metafora preferita, tua e del tuo collaboratore Chris Kinmann, amico comune. Propone i sintomi e le soluzioni ambedue come uno scambio di regali reciproci: un offerta di fiducia da parte di chi si racconta e un omaggio creativo la possibilità di perturbare questa narrazione. Mi sembra interessante perché si applica sia alla psicoterapia che agli interventi nei contesti allargati.”
“Si tratta di costruire un piano d’azione collaborativo e comune, di mettere i regali in un cestino collettivo e cambiare la formulazione di ciò che ci viene raccontato da negativo a positivo, cercando ed evidenziando punti di forza inaspettati. ‘Quali regali e potenzialità questa persona può mettere in comune con la comunità e poi a sua volta ricevere dagli altri?’ questa è la domanda da farsi. Non si tratta di sapere già la risposta ma di permettere alle persone di inventarsi. Lo sosteneva già von Foerster (1987), dobbiamo aiutare le persone a diventare poeti.
“Come ti immagini il futuro di noi professionisti della salute?”
“Non c’è lavoro artistico che non faccia emergere qualcosa che non esisteva prima. Mi piace parlare di terapia senza pareti, orizzontale e democratica, fuori dalla stanza e dai molti vincoli imposti, trasportata nelle comunità, perché internet ci ha resi tutti nomadi. Continuiamo a cercare un linguaggio che ci dia un senso di ciò che stiamo facendo, propongo, un linguaggio ancora non scritto (unlisted language), che ci porta in nuovi territori. Il cambiamento non accade con la terapia ma attraverso conversazioni che ci connettono con gli altri e con noi stessi. I processi mentali non sono operazioni che avvengono una volta per tutte ma operazioni di connessione e disconnessione (assembling and disassembling). Dovremmo domandare in modo da ampliare l’ascolto, anziché ascoltare per poter parlare, consapevoli delle risorse che abitano le nostre vite. Penso ad un lavoro in cui si darà credito a testimoni esterni, in cui si romperanno le gerarchie e la rivalità professionale. Penso a gruppi dai confini labili, a fisarmonica, per fare partecipare e allontanare elementi che intervengano in tempo reale sulla crisi  e che partecipino nella comunità. Mi piacerebbero persone che si riuniscono non per la struttura che li organizza ma per mettere insieme voci molteplici e dialoghi stimolanti. Immagino la possibilità di lavorare sui punti di somiglianza con le persone che stanno male, più che sulle differenze. Chiamerei questa pratica open dialogue, come ci suggerisce Robert Whitaker. Un tipo di ricerca che procede per multipli, senza punti di entrata o uscita ben definiti e senza gerarchie interne. Un processo che coinvolge sistemi decentrati che raccolgono le voci delle persone che riflettono insieme. La creazione di un web di legami che non si rispecchiano in una struttura data e stabilita una volta per tutte. Gli incontri tra persone senza una struttura gerarchica ma che si ritrovano in base all’interesse, come è successo qui a Vancouver.
Il nostro lavoro è “nuovo” nel senso che implica ritracciare nuovi germogli e farli crescere, dargli acqua e terreno in cui crescere, andare per tentativi ed errori.”
“Grazie Lynn, come sempre i tuoi stimoli sono preziosi e molto creativi!”

Bibliografia (quasi) completa dell’autrice:

Hetrick E.,Hoffman L., 1981, The Broome Street Network, in Sanders D.S., Fischer J., Kurken O.(Eds), Foundamentals of social Work Practice, Duxbury Press, North Scituate.

Hoffman  L., 1971, Deviation-amplifying Processes in Natural Groups in Haley J. (ed) Changing Families, Grune & Stratton, New York.

Hoffman L., 1975, Enmeshment and the too richly Cross-joined System, Family Process 14, 457-  468.

Hoffman L., 1976, Breaking the Homeostatic Cycle, in Guerin P.(ed) Family Therapy, Theory and Practice, Garner Press, New York.

Hoffman L.,1980, The family life cycle and discontinuous Change, in Carter E., Orfanides M. (eds) The family life cycle, Garner Press, New York.

Hoffman L., 1981, Foundations of Family Therapy, Basic books, New York.

Hoffman L., 1983, Un modello evolutivo per la terapia familiare sistemica, in  Malagoli Togliatti M., Telfener U. (a cura di), La terapia sistemica, Astrolabio, Roma.

Hoffman L., 1985, Beyond power and control, Family Systems Medicine, 3, 381-396.

Hoffman L., 1993, Exchanging Voices, Karnac Books, London.

Hoffman L., 1998, Setting aside the model in family therapy, Family Process, 24, 145-156.

Hoffman L., 2000, A communal perspective for the relational therapies, in M.Olson (Ed.), Feminism, community and communication, Haworth, Birghamton.

Hoffman L., 2002, Family Therapy, an intimate history, Norton, New York.

Hoffman L., Davis J., 1993, Tekka with feathers, in S.Friedman (Ed.) The new language of change, The Guilford Press, New York.

Hoffman L., Long L., 1969, A systems dilemma, Family Process, 8, 211-234.

Haley J., Hoffman L., 1967,  Tecniche di terapia della famiglia, Astrolabio, Roma1974.

Boscolo L., Cecchin G., Hoffman L., Penn P., 1987, Milan systemic family therapy, Basic Books, New York.

Bibliografia dell’articolo

Alexander C., 1964, Note sulla sintesi della forma, Il Saggiatore, Milano, 1967.

Andersen T., 1991, The reflecting team, Norton, New York.

Bachtin M.M., 1975, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979.

Deleuze G., Guatarri F., 1980, Millepiani, capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010.

de Shazer S., (1994),  Words were originally magic, Norton, New York.

Foerster von H., 1987, Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma.

Gilligan C., 1982, In a different voice, Harvard Univ. Press, Cambridge.

Kinman C., 2011, The language of gifts, Rhizome productions,Canada.

McGoldrick M., 1998, Re-visioning family therapy: race, culture and gender in clinical practice, Guildford, New York.

Shotter J.,  1997, The social construction of our “inner” lives, Journal of Constructivist Psychology,  5, pp.49- 73.

Whitaker R., 2005, Anatomy of an epidemic: psychiatric drugs and the astonishing rise of mental illness in America, Ethical Human Sciences and Services, Vol.7, n°1, pp.23-35.

White M.,1992, La terapia come narrazione, Astrolabio, Roma.

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